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MacroPasticcio


Evviva. La giunta comunale alemanna è riuscita nell’intento di far dimettere il direttore del Macro. Chiariamoci, non è certo solo responsabilità del sindaco, ma pure molti dei casini sono da imputarsi alla gentaglia (assessoretti, amichetti di partito, arrivisti della tornata elettorale, ma anche gente come Umberto Broccoli che si sente legibus solutus) dalla quale esso stesso si è fatto circondare.
Di certo Roma, dopo tanti anni di chiacchiere, ha goduto di un paio d’anni di grande fermento, dovuti al vulcanico direttore – e alle sue truppe – che non hanno esitato di proporre alla città un modello di museo sempre aperto, con continue inaugurazioni (molte delle quali grazie al contributo delle gallerie) e tanta gente che gira. Un luogo cioè ben lontano da quello che effettivamente è un museo di arte contemporanea nel nostro Paese (con la speranza che il nuovo direttore non rinunci a questo approccio).
Alla fine le dimissioni sono dovute alla mancanza di certezze economiche e modelli di governance per l’istituzione. Non si può lavorare in questo modo, e non sarebbe serio – deve aver pensato Barbero, a ragione, dato che maggio ancora non era chiaro il budget che il comune gli riservava. Non ci resta di sperare che qualcosa cambi nella capitale, che arrivi un nuovo direttore pronto ancora a dare la sveglia ai romani, ma anche a tirare per la giacchetta fondazioni, banche & co.

San-to-su-bi-to!

Era già scritto sui manuali di storia che Karol Wojtyla – il papa che aveva stretto la mano a Pinochet e si era opposto alla teologia della liberazione, che beatificava gentaglia come il fondatore dell’Opus Dei, che ha continuato a vedere le donne nel solo ruolo mariano – diventasse santo. D’altronde la furbizia dei cardinali è proverbiale: guai a farsi sfuggire di bocca il prezioso boccone mediatico di uno degli uomini più visibili del XX secolo. La gente lo acclamava “santo subito”? Allora accontentiamoli, si sono evidentemente detti i cardinali (che i miracoli li sanno fare più di ogni esperto di comunicazione).
E così vai a servizi zum-pa-pà mamma mia quanto era bravo sulle televisioni di tutto il mondo, sui quotidiani, gallerie fotografiche sui rotocalchi, su internet e tutto il resto fino al merchandising papalino che ha inondato Roma. Con noi italiani, come era fuori discussione, in prima fila con il panem et circenses.
Ho i brividi e sono emozionato. Non so se mi reggono le coronarie tra matrimonio reale e beatificazione. Le bestemmie, per grazia mia, sono invece ben allenate.

Fuoco e fiamme su Roma. Finalmente un po’ di realtà

Mi sono sempre stupito del fatto che, con la crisi economica, la grande disoccupazione, i tagli a molti settori centrali della vita dell’Italia decisi dal governo, il crollo di tutto il sistema paese (scuole, pubblica amministrazione, lavori pubblici, cultura eccetera eccetera), la gente se ne stesse anestetizzata a casa a guardare la tivù o passasse i sabati per negozi e centri commerciali.
Già da un paio di anni ho la sensazione che le persone vivano nel favoloso mondo dei polli, pieno fino all’orlo di merda spacciata per cioccolata. Trent’anni fa, con una simile situazione avremmo cercato di dar fuoco al parlamento e, alle manifestazioni, solo pochi politici avrebbero avuto il coraggio di presentarsi e parlare.
Ho avuto un fremito di piacere quando oggi, dopo le votazioni in parlamento con la fiducia comprata da Berlusconi, qualcuno abbia finito per incazzarsi ritenendo la cosa intollerabile. Il volto con cui si è presentata è quello – mai desiderabile – della violenza e del fuoco, ma finalmente la realtà bussa alla porta.

 

Roma, il Cupolone e la città in largo

In una recente dichiarazione, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha suggerito come costruire “in alto”, oltre quel vincolo ideale posto dalla cupola di San Pietro, possa essere una nuova strada per evitare che vengano deturpate altre zone periferiche della capitale. Costruire verticalmente – questo è il concetto – può arginare il proliferare orizzontale della città.
Oh bene, finalmente un’idea! A mio avviso però Alemanno non centra la questione, dato che il problema non è tanto come costruire, ma che idea di ha della città. Pensare a periferie con palazzi alti equivale infatti a costruire periferie in largo se non si cambia la modalità monofunzionale per cui lavoro, servizi e vita sociale avvengono in centro, mentre la casa è altrove. Bisogna mischiare le cose, rendere la città viva ovunque e smetterla col costruire al di fuori del centro gli ennesimi quartieri dormitorio che arricchiscono i palazzinari e producono bruttezza!

De Chirico e la parabola dell’italiano disonesto

Non riesco a capire perché un’istituzione sostanzialmente seria, come il romano Palazzo delle Esposizioni a Roma, perda tempo ad ospitare una retrospettiva (a cura di Bonito Oliva), su Giorgio De Chirico con lavori che, pur autografi per mano, sono moralmente e concettualmente falsi. La natura secondo de Chirico – il titolo a dir il vero è spuntato fin quasi a mettere d’imbarazzo – è una mostra su un artista che, dopo essere stato un vero genio della pittura negli anni giovanili, è riuscito nella maturità a disonorare il frutto della propria ricerca.
Nel secondo dopoguerra De Chirico aveva infatti con una certa frequenza iniziato a copiare i propri quadri metafisici, ma anche a retrodatare quelli che faceva per poterli vendere come giovanili: quindi da un lato riproponeva la maniera degli anni Dieci e Venti, dall’altro si autofalsificava arrivando perfino a non rendersi più conto lui stesso se l’opera fosse originale o copia. A quel punto il pasticciaccio era fatto.
Ma che credibilità può avere un simile uomo disonesto? Come possiamo tollerare questa pratica intellettualmente truffaldina dedicandogli una mostra con lavori posteriori agli anni Quaranta (seppure con l’accortezza di segnalarne l’erronea datazione furbesca). Ci piace celebrare il famoso, il noto, il vincente, e non sappiamo mandare a fanculo i vecchi tromboni che ci fottono.
La parabola di de Chirico è esattamente la stessa del nostro paese. Che disgusto.

Macro & Maxxi. La sfida è ora

Non c’è che dire. La doppia apertura museale romana Macro/Maxxi ha dimostrato quello che forse si sapeva già: gli italiani, se vogliono, ce la fanno a far qualcosa di buono, anche se molti remano contro.
Non vorrei però che la modalità scelta per la città fosse troppo semplicisticamente ispirata al modello Bilbao: faccio un museo da meraviglia in una città sperando che automaticamente cambino le sorti del luogo. Infatti fortunatamente Roma non è depressa come la Bilbao degli anni Ottanta (essendo in buona sostanza una città dal passato florido ed invadente che vive avvolta dalle ragnatele della propria storia) e nel contempo la città è anche un centro economico e culturale di primo livello; parimenti sono disponibili numerosi capitali di provenienza bancaria e qualche volta pure le istituzioni riescono a lavorare.
Roma non ha cioè immediato bisogno di Macro & Maxxi: queste due istituzioni infatti non appartengono (solo) alla città bensì al paese tutto. Costruito il motore, Roma deve a questo punto mettere a disposizione il combustibile per andare altrove. Per produrre innovazione, cultura del cambiamento, interesse, partecipazione. Dopo i fuochi d’artificio dell’inaugurazione la vera sfida è ora.

L’abbuffata romana

E’ una grande abbuffata quella che si presta ad essere consumata a Roma questa settimana. Dopo anni di attesa aprono il Maxxi, il Macro, e per gli instancabili camminatori non paghi di aver visto i musei c’è pure la fiera Road to Contemporary Art. Ovviamente ci sono pure le gallerie, le conferenze, i brunch, le cene, le feste e tutto il resto. C’è insomma da rimanere storditi.
Per una volta molto del mondo internazionale dell’arte ci guarderà senza ridere preventivamente, solo per capire se noi italiani ce la faremo oppure no. Per capire se sarà insomma il classico fuoco di paglia o davvero un salto in avanti per il sistema dell’arte italiano.
Nessuno lo sa ancora intanto abbuffiamoci, semel in anno. Nel giro di un lustro capiremo se la festa è appena iniziata o se sarà il canto del cigno. Inboccallupo Italia.