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A San Valentino pomiciamo al Mart

“Dammi migliaia di baci, poi cento, poi ancora mille e ancora cento”. Scriveva questo Catullo, duemila anni fa, in una delle poesie dedicata alla sua amata, che rimane tra le più sensuali di tutta l’antichità. Un invito a scambiarsi effusioni, fino a perderne il conto. Un po’ quello che ha invitato a fare il Mart oggi (giornata di San Valentino che festeggia gli innamorati) consigliando ai colpiti da Cupido di fare un salto al museo.
Il Mart, proprio per l’occasione, è eccezionalmente aperto (il lunedì solitamente è giorno di chiusura) con un biglietto a basso prezzo pensato apposta per le coppie, regolari o irregolari non importa, mentre per i ménage à trois non viene specificato niente. Ma la cosa carina – anche ruffiana nel suo essere pomiciona se volete, ma pur sempre carina – è l’invito a fotografarsi mentre ci si bacia sotto la cupola di Mario Botta e successivamente inviare la foto al Mart. Le foto più belle (sarebbe curioso capire se in basi ai dettagli tecnici del bacio o all’aspetto estetico della foto, alla bellezza dei partner, ecc.) saranno pubblicate sul sito del museo e la miglior coppia riceverà in omaggio il catalogo della mostra di Modigliani.
Mi è sembrato un modo carino, ed esibizionista quanto è giusto al tempo dei social network, per entrare al museo. Anzi, quasi quasi vale la pena di suggerire al Mart di aprire un Flickr con le foto dei visitatori che si baciano davanti alle opere del museo (infischaindosene di diritti e tutto il resto). A divertirsi non ci sarebbero solo le scolaresche.

Cicelyn, Bonami e il vizietto della produzione a braghe calate

Penso che sia il momento di finirla con la malaconsuetudine di un’istituzione pubblica che produce nuove opere agli artisti senza poi acquisirle. Tanto più se si tratta di cifre davvero importanti.
Una questione, tutt’altro che marginale,
messa sul piatto da Guido Cabib e ripresa da Giampaolo Abbondio (galleristi rispettivamente di Changing Role e Pack) nel caso della sedicente buona gestione del napoletano Madre, riguarda proprio il fatto che il museo abbia speso dei soldi per pagare gli ingenti costi materiali dei lavori senza poi esserne diventato proprietario.
La pratica in realtà è molto diffusa e prevede che l’istituzione diventi in qualche maniera comittente affidando all’artista un incarico che, per sua natura, dovrebbe essere libero nella ricerca e al di fuori delle logiche e dei vincoli di mercato. Agendo in questo il settore pubblico si caratterizza come attore in grado di mettere in atto dinamiche virtuose. Il problema nasce però quando l’opera rimane dell’artista, o, come capita molto più spesso, dei galleristi con cui l’artista lavora. Perché a quel punto l’istituzione non concorda l’acquisto dell’opera ad un prezzo ragionevole come sarebbe auspicabile? Anche nel caso di una differenza notevole tra costo e valore dell’opera, considerato il prestigio culturale che dovrebbe garantire il museo (che tra l’altro spende soldi in comunicazione, catologhi, critici, ecc.) un accordo andrebbe trovato.

Ed invece molto spesso i critici calano le braghe a compiacenti galleristi che così si trovano gratuitamente nel proprio magazzinoopere esposte in un museo: si collettivizza così la spesa per la ricerca ma se ne privatizza il guadagno. Olè! Altri esempi oltre a quelli napoletani? Le sculture di Tuttofuoco e della Pivi collocate nel parco di
Villa Manin – gestione Bonami – sono state pagate dai contribuenti friulani ma sono di proprietà delle gallerie milanesi dei due artisti (Guenzani e De Carlo). Che tra l’altro, visti i costi di trasporto non indifferenti della spirale e dello scivolo, sembra abbiano finto di dimenticarsene e siano intervenuti solo dopo la piccata telefonata del nuovo assessore regionale alla cultura…