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Casino Biennale


Casino. Approssimazione. Ma anche disorganizzazione. Non ci sono altri modi per raccontare la situazione per le sezioni del Padiglione Italia che avranno base regionale. Sono stato contattato ormai da una decina di artisti veneti che non sanno cosa fare e nemmeno cosa faranno, poiché ad un mese e mezzo dalla mostra – ricordiamolo: è pur sempre la Biennale di Venezia e non la Sagra del Gnocco – non hanno alcuna informazione in merito.
Che opere devo portare? quanto spazio ho? Che catalogo ci sarà? Chi seguirà la mostra e gli allestimenti? Zero, niente informazioni. L’unica sicurezza è l’ambientazione a Villa Contarini a Piazzola sul Brenta, mentre pare che il catalogo sarà diviso in tre tomi (nord, centro e sud Italia).
Penso che in questa bolgia pensata da Sgarbi convenga disertare, non tanto come gesto politico, ma perché l’arte è un lavoro serio, non un mestiere da cazzari. E poi, a cosa serve avere una riga in più per la Biennale più incasinata del mondo dove non si capisce nemmeno quale sia il progetto? In confronto – per il momento dal punto di vista organizzativo, poi per la qualità si vedrà – quella di Beatrice&Buscaroli era da oscar.

Pittura, brutta figlia di p.

Pregiudizi di ogni tipo sono quelli che molta della critica progressista e à la page del nostro paese ha nei confronti della pittura. La cosa si vede, oltre che nelle mostre in molti negli spazi pubblici, dalla costante assenza del medium nelle gallerie considerate portatrici della ricerca più innovativa, di quelle più ambite e snob.
Non so perché, ma sembra che la pittura sia una pratica da sfigati che appartengono ad un’altra epoca, dei pezzi di antiquario postmoderno (anche io, nel mio piccolo, quando mi sono trovato a curare mostre con pittori ho ricevuto bonari e sarcastici apprezzamenti da colleghi o da altri artisti). E inoltre, se curiosamente la pittura degli artisti italiani è snobbata, capita invece di vedere come gli stessi critici guardino con occhio meno critico pittori inglesi o tedeschi: d’altronde si sa, noi siamo esterofili.
Fa specie così vedere molta della critica e del mondo dell’arte che non sostiene affatto la pittura radunati ad un tavola a discuterne al Docva a Milano (ecco la segnalazione dell’evento). L’idea che me ne sono fatto – ma probabilmente sbaglierò – è che  quelle persone tenteranno di fare l’autopsia di un morto che hanno contribuito ad uccidere, spiegando come in realtà non sia loro responsabilità. Ovviamente non sarebbero mancate persone più adeguate, ma il mondo dei figaccioni internescional è terribilmente autoreferenziale.
Il problema è che sono troppo pochi ad occuparsi di pittura di valore in Italia. Con il risultato di lasciare il campo libero a dei furbacchioni come Luca Beatrice o degli incompetenti di contemporaneo come Sgarbi. Siamo messi davvero bene.

Beatrice e la pittura? Da evitare come la peste

Se sei un artista che usa la pittura sei più sfigato di un artista concettuale. Se poi hai fatto una mostra curata da Luca Beatrice allora sei proprio commerciale con ricerca zero. Non ci interessa il tuo lavoro, grazie, torna pure al cavalletto.
E’ indubbiamente questo il pensiero di molti dei benpensanti ed intellettualissimi curatori italiani à la page (ma indubbiamente anche di tanti artisti). I geni – che Luca Rossi direbbe riuniti nella diade Mousse/Kaleidoscope – si gasano infatti per l’ennesima pratica concettuale masturbatoria senza poi rendersi conto che l’approccio alla ricerca può avvenire con colore e pennello. E poi ciao ciao senza nemmeno guardare i lavori se ti è capitato di lavorare con curatore sputtanato. Al massimo uno sguardo con sufficienza e sotto un altro.
Non voglio certo dire che il lavoro di Beatrice mi piaccia né tantomeno difenderlo (ha realizzato una Biennale vergognosa per gli spazi e la scelta di alcuni degli artisti). Però smettiamola di dire che la pittura è passato e di considerare un artista solo dal fatto che abbia fatto una mostra con questo o piuttosto che quel critico. Siamo obbiettivi e con onestà guardiamo alla ricerca, senza fare di tutta l’erba un fascio. Tanto più perché di fasci – in questo paese sempre più arretrato, brutto e cialtrone – siamo pieni.

Gli scatarri di Beatrice sull’Arte Povera

È da un po’ che Luca Beatrice se la prende con i critici più bravi di lui, per questo o quel motivo, purché siano di sinistra (d’altronde deve pure saldare i debiti intellettuali con Bondi che l’ha chiamato alla Biennale, no?). Uno dei suoi bersagli preferiti è Germano Celant, contro cui ha scritto spesso, recentemente anche su il Giornale. In sostanza, spiega Beatrice, gli artisti dell’Arte Povera ed il critico che ha teorizzato il movimento agiscono come una vera e propria lobby che “ha costituito una rete invalicabile di protezioni che nessuno è in grado di scalfire […] e ha goduto della connivenza politica grazie all’abilità del curatore sia di rispolverare quei termini populisti che un tempo solleticavano i radical chic, sia quei capitalisti così disprezzati ma che hanno permesso all’Arte Povera di fare il bello e il cattivo tempo”. La tesi è affascinante e non è priva a tratti di verosimiglianza, dato che Celant  & co. appartengono in qualche modo ad una casta – su questo ha ragione -, ma Beatrice tace il fatto che la posizione di prestigio dei poveristi è maturata sul campo e con la qualità dei lavori e della critica, e non è certo frutto della solita cricca di furbetti di sinistra. Altrimenti, come lui stesso ammette, come sarebbe possibile che “il sistema globale concordi nel ritenerla l’unica proposta italiana internazionalmente valida dopo il Futurismo”? (E comunque, caro Luca, ogni tanto confronta un testo scritto da Celant con uno magari di quelli che fai te, ok?)
Beatrice poi sbanda palesemente e paurosamente arrivando a dire che “l’Arte Povera ha impedito all’arte italiana di crescere producendo una serie di cloni fuori tempo che non ha alcuna possibilità di successo”, e che la sua supremazia “ha cancellato qualsiasi altro linguaggio e forma”. Le affermazioni sono palesemente disoneste, ma, suppongo, devono evidentemente dischiudere le porte di qualche ministero o i portoni di qualche assessorato (magari in Piemonte, se l’attuale giunta non fosse confermata).
Dispiace invece che rimanga affondato in questo accumulo di fesserie un’osservazione importante in merito al grande progetto multimuseale (e multimilionario) dell’anno prossimo dedicato all’arte povera. Era davvero necessario? Ci sono istanze critiche, estetiche, filosofiche sul movimento che hanno necessità di essere ancora eviscerate? E poi, in fin dei conti, gli artisti che appartengono al movimento non godono comunque di una prestigiosa copertura espositiva nel nostro Paese? Non era meglio pensare a qualcosa di nuovo per questa Italia sempre più vecchia ed intellettualmente sempre più puttana?