Dicono che Il Corriere della Sera sia il più importante quotidiano del nostro paese. Al di là del fatto che usare la parola paese per l’Italia pare esagerata, il quotidiano Rcs non perde invece l’occasione per dimostrarsi l’organo della cattiva borghesia italiana. Quella insulsamente conservatrice e che malpensa, poiché difendere i propri interessi vale ben di più di amministrare e mettere in piedi una nazione, di esserne cioè quella che pomposamente una volta si diceva “classe dirigente”.
Che dire ad esempio del pezzo dell’altro ieri di Ostellino su l’insostenibile leggerezza dello stato sociale, prontamente confermato nella tesi dalla pen(n)a puntuta di Panebianco? O della posizione prona alla Maria Goretti (ben più dirette le prese di posizione della Stampa o di Repubblica) in merito al bavaglio che il Parlamento sta mettendo alla stampa?
Massì, non rompiamoci le palle a dare la caccia agli inquisiti e a fare i reporter d’assalto, deve pensare De Bortoli. Siamo il quotidiano più letto, abbiamo amici importanti tra i grandi che lombardi che contano e consiglieri d’amministrazione che non vogliono casini. Per piacere stiamocene seduti a pranzare con il sushi e bollicine della Franciacorta. E per l’amor di dio non si racconti che l’aria è ammorbata dei peti di una classe politica vergognosa. E per rispetto del bon ton, teniamoci stretto il bavaglio(lo).
Mi viene il vomito.
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La cultura è improduttiva?
In un bel articolo uscito su la Repubblica giovedì, Salvatore Settis fa un’analisi in cui spiega come la tendenza a tagliare i fondi alla cultura – tanto più in un frangente di difficoltà economica – sia comune a tutte le forze politiche del nostro Paese. “Destra e sinistra troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell’Economia di Crisi”, scrive. Settis cita poi un intervento di Vincenzo Cerami su l’Unità in cui l’intellettuale spiega come la classe politica e la classe dirigente non abbiano una “cultura della cultura”. Entrambe infatti non hanno mai percepito come “le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola abbiano una funzione alta e insostituibile nella società”. In particolare perché “sono […] il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme”.
È un destino amaro infatti occuparsi di cultura qui in Italia. Non c’è la consapevolezza che la cultura sia un’attività produttiva, con le potenzialità per costruire innovazione, crescita e sviluppo. Invece cultura, arte e musica – nella percezione comune di politici, classe dirigente e società – sono solo improduttivo passatempo da lacchè o intrattenimento da sfigati topi da biblioteca.
Per onestà va però detto che per troppo tempo (e tutt’ora!) gli intellettuali e tutti coloro che si sono occupati di questi settori hanno evitato di sporcarsi le mani con l’economia vera, preferendo una posizione elitaria e purista, ma da elemosinanti che bussano alla porta del potente di turno, piuttosto che rivendicare un ruolo attivo e consapevole e con dinamiche economiche reali.
Il conto lo abbiamo pagato carissimo. Forse è giunta l’ora di cambiare, veramente.