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Birnbaum fa il buyer a Frieze

Lorna Simpson, Jimmie Durham e Julius Koller. Sono questi gli acquisti che Daniel Birnbaum ha fatto per la Tate Gallery a Frieze, grazie al fondo messo a disposizione dalla fiera e da alcuni sponsor. Niente di giovanile o di inaspettato, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dall’intervista che ha rilasciato per The Art Newspaper (la vedete qui), in cui ha spiegato l’eccitazione ed il piacere di occuparsi della collezione di una istituzione trattando direttamente con i galleristi. La Simpson e Durham sono ormai dei pezzi da museo, quasi storicizzati, mentre Koller è uno di quegli artisti concettuali dell’Est Europa che i critici d’avanguardia stanno riscoprendo negli ultimi quattro-cinque anni, come ad esempio è capitato con il grande Jiri Kovanda: insomma è à la page, ma si compra abbastanza bene poiché i collezionisti ancora non ci hanno messo troppo gli occhi (che strano destino, la storiografia conta tantissimo, ma in arte è possibile correggersi dato che le opere non necessariamente spariscono).
E comunque, se Durham è sempre il solito tran tran, gli altri due sono due bei pezzi. Chapeau Herr Birnbaum. Ma un giovane no?

Jiri Kovanda: la forma è stata un ripiego

Tempo fa ho avuto il piacere di fare una conversazione con Jiri Kovanda, uno degli artisti concettuali più attenti e raffinati sin degli anni Settanta, giustamente riscoperto nell’ultimo periodo per l’interesse della sua ricerca sulla gestualità, sulla spazialità del corpo e sulle implicazioni scultoree che intercorrono tra individuo e contesti aperti.
L’avevo conosciuto ancora nel 2007, in occasione della sua partecipazione al festival Tina-B di Praga con un’azione pubblica. Nello stesso luogo dove trent’anni prima aveva realizzato una performance in cui grattava un muro con le unghie delle sue mani (era un modo per interrogarsi sulle difficoltà di vivere in un paese senza democrazia), si era seduto a per limarsi le unghie, con molta nonchalance, quasi a testimoniare la condizione di impotenza dei tempi attuali, in cui siamo costretti ad essere semplicemente spettatori della realtà, di decisioni e scelte prese altrove: l’artista – ma la condizione è comune alla classe intellettuale, anche della nostra nazione – non è più in grado di incidere sul tessuto sociale e non gli rimane che farsi la manicure.
Tra le tante cose che mi hanno colpito nelle sue parole, c’è l’analisi di come i paesi comunisti dell’Est Europa (in cui esisteva un estetica realista di regime) abbiano condizionato gli artisti costringendoli a lavorare in vere e proprie nicchie. Si sono così sviluppate le pratiche performative, azioni delle quali non rimane traccia visibile, e parallelamente si è registrata una grande l’attenzione agli aspetti concettuali e formali in qualche modo minimalisti, incapaci per l’autorità politica di avere effetti critici sul regime.
Così, incredibilmente, la mancanza di libertà ha reso la ricerca ancora più spinta e pregante. Peccato che la tradizione storiografica sull’Europa orientale non sia altrettanto ferrata di quella sull’Europa occidentale o americana: bisognerà evidentemente discuterne ancora.
E comunque era la prima volta in cui sentivo parlare degli aspetti formali come un ripiego. Chissà cosa ne pensano i nostri giovani artisti ammazzati dal’accademismo da compitino concettuale.