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Un’espressione geografica?

 

Quando ero bambino in terza elementare per Natale mi regalarono un librone molto bello e che mi fece molto felice perché conteneva una miriade di informazioni di natura geografica. Il suo titolo era “Il grande libro delle regioni d’Italia” (pubblicato da Mondadori) e conteneva un’analisi, divisa regione per regione, del territorio del nostro Paese. Grazie a quel tomo mi era così possibile fantasticare scoprendo le attività di luoghi lontani e che non conoscevo direttamente, come pure sapere che in qualche territorio vi erano boschi di latifoglie oppure si praticava l’allevamento stabulare dei maiali o la pastorizia.
Se non è partito direttamente dal suo sussidiario di terza elementare, suppongo Francesco Bonami si sia basato su un libro simile per elaborare il concept della mostra Un’Espressione Geografica, dal bel titolo metternichiano, vagamente da restaurazione (sia detto senza ironia: Bonami quanto a titoli è davvero notevole). La mostra, ospitata alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, raccoglie – in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia – venti artisti stranieri cui è stato chiesto ciascuno di interpretare una regione, dopo un’opportuna residenza o un viaggio nel territorio. Non ridete, è proprio così. Il comunicato stampa infatti recita che “la mostra racconta il Paese di oggi e di domani, ritraendo le ricchezze e le specificità di ciascuna Regione”, proprio come si fa con i vini, l’olio, i formaggi o gli insaccati.
La domanda infatti che sorge spontanea è questa: esistono ai giorni nostri nel nostro paese delle caratteristiche su base semplicisticamente regionale così marcate e caratterizzanti? E poi, se proprio esistono, sono tali da essere percepite da stranieri? Ma soprattutto è lecito parlare di regioni e non invece di economia, cultura, industrializzazione, criminalità o politica? La risposta è ovvia, ma non per il critico toscano, che invece si incaglia nei classici stereotipi, avendo scelto di condurre l’analisi su base di territorio regionale e non su altri criteri ben più attuali. Ma a questo si aggiunge pure il tentativo di travestire in forma soggettiva l’operazione (“Le opere appaiono così agli occhi dello spettatore come un grande diario di viaggio, trasformando il visitatore di Un’Espressione Geografica in un viaggiatore contemporaneo: le storie, le esperienze, le sensazioni raccolte in ciascuna Regione sono al centro anche dell’esperienza del visitatore della mostra, che può riscoprire da prospettive inedite e inaspettate il nostro Paese”), finendo per far sembrare davvero ridicoli i lavoretti dei 20 artisti che si sono fatti ciascuno un picciol tour di una settimana in una regione. Rimarrà così insoluto il quesito se siano opere nate da un terroir o da un processo individuale.
A questo bisogna aggiungere che le opere (prodotte dalla stessa Fondazione Sandretto: quanto soldi buttati al vento!), eccetto quelle di Putrih e di Ondak, sono di una banalità terrificante, perché è evidente che sono il frutto di un soggiorno da turista e non di una ricerca d’artista.
Il risultato è cosi deludente da essere imbarazzante per l’istituzione che ospita la mostra. Da parte nostra essenzialmente Un’Espressione Di Disgusto che sarà opportuno toglierci con del profumato sauvignon del Collio o un corposo cannonau di Jerzu.

Bonami lo potevo fare anch’io. Forse meglio

Spero che siate stati alle presentazioni dell’ultimo inutilissimo libro di Francesco Bonami Si crede Picasso (vi consiglio francamente di risparmiare i 17 euri del libro). Ne ha fatte un paio in luoghi prestigiosi come Palazzo Grassi a Venezia e il Mart a Rovereto. Bene direte, ci sarà stato da divertirsi: da autentico toscanaccio avrà raccontato un sacco di storie e ne avrà dette di cotte e di crude, tanto più perché davanti a platee del mondo dell’arte e quindi sensibili.
Sbagliato. Una noia mortale: pensieri pochi e pure espressi male: semplicemente imbarazzante. E il libro? Vi ricordate il giudizio di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin? Sì, proprio così: una cagata pazzesca. Eppure Bonami ha e ha avuto ruoli di prestigio ed il suo curriculum è assolutamente invidiabile. Spero per lui che nei prossimi anni si limiti a fare belle mostre, perché a parlare e formulare pensieri è un disastro, come sa bene chi l’ha visto contro il parolaio Sgarbi alla Sandretto. Tutto il resto è davvero noia e fuffa.
Che dire? Quanto meno con ABO ci saremmo divertiti a vedere un guitto sul palco.

Sgarbi è come Ben Laden. Parola di Bonami



“L’arte contemporanea sta a Sgarbi come l’America a Bin Laden”, ha dichiarato Bonami in una pepata intervista uscita su The Art Newspaper, spiegando come la sua guida del padiglione nazionale sia “molto vicina ad un attacco suicida alla dignità italiana”. E questa è una grande verità. Come possiamo non temere l’isteria intellettuale ed il gusto incredibilmente (e vomitevolmente) passatista del critico ferrarese? Bravo Francè, hai detto bene.
“Sfortunatamente Sgarbi ce lo meritiamo”, prosegue poi Bonami, con la sua irrefrenabile linguaccia. Giusto pure questo. Ma il vero quesito a mio avviso è questo: ci meritiamo Bonami?

Bonami il calviniano della legion d’Onore

Ho sempre trovato simpaticamente calviniano Francesco Bonami. Un po’ Marcovaldo, un po’ Il curatore inesistente, un po’ Il critico dimezzato. Non nascondo che ho nutrito grande affetto nei suoi confronti per le mazzate prese da Sgarbi alla Sandretto: che dispiacere vedere l’alfiere del contemporaneo prenderle dal cattivo e vigoroso parolaio passatista! Se si aggiunge poi il fatto che abbia pure fatto delle cose non brutte e che la sua Biennale non è stata certo la peggiore del decennio, possiamo dire senza sbagliarci che ci sono curatori ben peggiori. Insomma, forse per intervalla insaniae ma qualcosa di buono lo ha fatto pure lui (tacciamo per onor di patria la sua tendenza all’inciucio con qualche galleria amica).
Colgo con sorpresa la notizia del conferimento proprio a Bonami della Legion d’Onore, prestigioso riconoscimento assegnato ad un parterre de roi di personaggi del mondo della cultura da parte della presidenza della Repubblica Francese. Evidentemente non siamo l’unico paese in cui conta essere amico di. Francesco chapeau, hai dei buoni amici.

Cicelyn, Bonami e il vizietto della produzione a braghe calate

Penso che sia il momento di finirla con la malaconsuetudine di un’istituzione pubblica che produce nuove opere agli artisti senza poi acquisirle. Tanto più se si tratta di cifre davvero importanti.
Una questione, tutt’altro che marginale,
messa sul piatto da Guido Cabib e ripresa da Giampaolo Abbondio (galleristi rispettivamente di Changing Role e Pack) nel caso della sedicente buona gestione del napoletano Madre, riguarda proprio il fatto che il museo abbia speso dei soldi per pagare gli ingenti costi materiali dei lavori senza poi esserne diventato proprietario.
La pratica in realtà è molto diffusa e prevede che l’istituzione diventi in qualche maniera comittente affidando all’artista un incarico che, per sua natura, dovrebbe essere libero nella ricerca e al di fuori delle logiche e dei vincoli di mercato. Agendo in questo il settore pubblico si caratterizza come attore in grado di mettere in atto dinamiche virtuose. Il problema nasce però quando l’opera rimane dell’artista, o, come capita molto più spesso, dei galleristi con cui l’artista lavora. Perché a quel punto l’istituzione non concorda l’acquisto dell’opera ad un prezzo ragionevole come sarebbe auspicabile? Anche nel caso di una differenza notevole tra costo e valore dell’opera, considerato il prestigio culturale che dovrebbe garantire il museo (che tra l’altro spende soldi in comunicazione, catologhi, critici, ecc.) un accordo andrebbe trovato.

Ed invece molto spesso i critici calano le braghe a compiacenti galleristi che così si trovano gratuitamente nel proprio magazzinoopere esposte in un museo: si collettivizza così la spesa per la ricerca ma se ne privatizza il guadagno. Olè! Altri esempi oltre a quelli napoletani? Le sculture di Tuttofuoco e della Pivi collocate nel parco di
Villa Manin – gestione Bonami – sono state pagate dai contribuenti friulani ma sono di proprietà delle gallerie milanesi dei due artisti (Guenzani e De Carlo). Che tra l’altro, visti i costi di trasporto non indifferenti della spirale e dello scivolo, sembra abbiano finto di dimenticarsene e siano intervenuti solo dopo la piccata telefonata del nuovo assessore regionale alla cultura…

ABO, le (di)missioni veneziane e la strategia per il palazzo…

Monique Veaute si è dimessa dalla direzione di Palazzo Grassi, spiegando come “si fosse compiuto un ciclo” e che quindi la missione per la quale era stata ingaggiata sia stata portata a termine. I dietrologi – sempre numerosi nel nostro paese – dicono invece che le dimissioni siano avvenute in maniera un po’ troppo sbrigativa, non tanto perché un corso si fosse concluso ma perché sostanzialmente non sia mai incominciato. I motivi? Pinault farebbe un po’ troppo da padrone…
E come suo stile, Bonito Oliva ci mette il carico, dicendo che il patron transalpino ha ridotto all’immobilismo Punta della Dogana, poiché il centro è stato affidato a “due servi di scena” come Gingeras e Bonami (il quale replica su Il Riformista, caustico ma un po’ troppo attento a pararsi il proprio didietro, quello del magnate francese, ma anche quello del sindaco Cacciari). “Se il comitato scientifico non avrà chiarimenti, io stesso mi dimetterò: del resto lì rappresento il Comune di Venezia, le cui linee guida sono completamente disattese dall’attuale gestione”.
Ottimo compromesso all’italiana. Dichiarazione forte (le dimissioni) ancorato a condizioni difficilmente verificabili per chi legge. Risultato che ancora non sapremo. Chissà, magari ABO vuole dimettersi per curare le mostre, per rubare la scena a quelli che lui definisce i servi del padrone?
ABO è un genio tattico, ed è imprevedibile. Lo vedremo. E se volesse dimettersi dal comitato scientifico per curare lui le mostre? Al Mart sembra sia successo proprio questo e che ne abbia beneficiato pure il suo conto corrente…