Dare un nome alle cose è spesso fondamentale nell’arte contemporanea. Sia che il titolo sia funzionale alla poetica (perché ne costituisce cioè un elemento chiave) che, al contrario, non incida sulla percezione e comprensione del lavoro.
Nella pratica allestitiva questo significa che l’osservatore deve essere messo in grado di vedere il nome dell’opera; cosa che, per supposta figheria concettuale – cioè sciatteria e supponenza – spesso non avviene. Sempre di più questo capita nelle fiere e pure nei musei. Ma se nelle fiere l’arte ha spesso delle logiche da supermercato (benché nome, provenienza e perfino prezzi di zucchine o dei pelati siano ben più chiari) che sono comunque difficile da digerire, irrita che i curatori non ci pensino.
Mi sono capitate mostre con etichette dai font illeggibili se non con monocolo da miniaturista; altre in cui le etichette erano a trenta metri, il che, come si può immaginare fa fare solo casino. Altre addirittura in cui non c’erano dato che era tutto “Untitled”.
Ragazzi, un po’ di umiltà no?
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Scommessa MiArt

Ma la vera domanda è: Milano ha davvero bisogno di una fiera? Dov’è il sistema dell’arte milanese in grado di esprimere un evento di mercato di livello? O si rassegnerà ad essere il terzo o quarto evento dell’anno dopo Bologna, Torino e Roma? Anche perché ArtVerona è alla calcagna…
Arriverà ad Artefiera il convitato di pietra?

I prezzi un po’ più bassi e le aspettative di un’economia in leggera crescita saranno un incentivo sufficiente, oppure parafrasando Mozart, sarà “come l’araba fenice, che vi sia ciascun lo dice, ma nessuno sa dov’è”?.
Vedremo. Nel frattempo le numerose iniziative off nella città e nei musei non possono che essere di buon auspicio.