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Prima mostra a Venezia

Tra qualche ora si inaugura la mia prima mostra a Venezia (la personale di Michal Martychowiec alla Galleria Upp). Non ne sono il curatore, ho scritto semplicemente il testo, ma la sento comunque in qualche modo mia. E questo benché non abbia seguito in tutte le fasi lo sviluppo del progetto, la scelta delle opere e l’allestimento.
Ho sempre pensato che la città lagunare fosse in qualche modo un tappa ineludibile del cursus honorum del curatore, per tutto quello che rappresenta, per il suo sistema culturale, per essere semplicemente icona ed unicum.
Questa sera mi addormenterò un po’ più felice.

Artisti, evitate i curatori sputtanati

Ho ricevuto varie osservazioni (e numerose proposte di coinvolgimento) dopo il post di settimana scorsa in cui mi interrogavo sulle ragioni per cui un artista possa rifiutare una mostra personale interamente prodotta da una galleria, tanto più in una città che è una vetrina del contemporaneo come Berlino. Qualche amico artista mi ha spiegato come, a suo avviso, ci si metta pochissimo a fare brutta figura dopo aver partecipato a mostre in gallerie sconosciute o con curatori non di primo livello. Se accetti di lavorare con certa gente devi anche abituarti al pubblico che si porta dietro, non basta che il progetto sia interessante: questo in sintesi il ragionamento. Quindi molta attenzione alle compagnie.
Un’amica in chat mi ha raccontato di aver rifiutato una mostra in uno spazio pubblico del nord Italia perché invece il curatore – ormai navigato – era parecchio sputtanato e troppo politico. “Che ci faccio con gente che ha leccato il didietro a Bondi e ha trasformato in commercio tutto quello che ha toccato?”. Meglio dire no, come hanno fatto lei e molti artisti della scena torinese.
Forse insomma è meglio semplicemente non far comparire il proprio accanto a quello di persone che non si stimano. Ma alla fine non rischia di fare come l’incauto marito che si evira per dispiacere alla moglie?

Rifiutare una mostra

Nelle scorse settimane mi hanno proposto di curare una mostra a Berlino di uno dei giovani artisti italiani internazionalmente più promettenti. Praticamente una mostra personale in uno spazio appena aperto, interamente prodotta dalla galleria. Il luogo è in una posizione centrale della capitale tedesca, ma ovviamente – avendo solo qualche mese alle spalle – non poteva garantire un’ottima visibilità, sebbene l’impegno di tutti i soggetti coinvolti sarebbe stato massimo.
Trovavo il progetto eccitante perché avrebbe permesso una grande libertà d’azione sia all’artista che a me, benché non sarebbero mancate delle zone di rischio, sopratutto sulla sua visibilità. Ma l’ebrezza della libertà di ricerca talvolta è la moneta più appagante, e poi penso che giocandosela bene ogni proposta possa diventare un’opportunità.
Alla fine l’artista ha rifiutato, forse appunto perché lo spazio è troppo giovane e troppo sconosciuto, o il mio nome non è una garanzia di risultato. E’ una scelta che posso capire, dato che una carriera è una lunga corsa a tappe in cui bisogna saper non sbagliare, né affaticarsi o affidarsi a persone sbagliate. E poi è necessario pedalare per chilometri senza perdere di lucidità.
Mi dispiace però che un trentenne non abbia voluto buttarsi come un leone. Molto più spesso che non si dica l’entusiasmo e l’energia, anche in questo mondo complesso e un po’ stronzetto come l’arte contemporanea, pagano.

I curatori? Guardano più il portfolio che le opere

In un paio di commenti sulla vicenda di Alterazioni Video al ravennate Mar (spesso, come segnalato in un articolo di Christian Caliandro, sono proprio i commenti una delle cose più interessanti), si citava della prassi di alcuni curatori di guardare e giudicare le opere solo dai portfolio degli artisti. Molti curatori – questo il succo – lavorano con artisti dei quali non hanno visto le opere ma solo la loro presentazione, la loro immagine, senza cioè uno degli aspetti più interessanti e centrali quale è la visita in studio.
Fare uno studio visit – è un’opinione del tutto personale – è una delle cose più interessanti ed eccitanti del mestiere. Vedere il luogo e l’ordine/disordine, sentire il sudore, guardare l’approccio al lavoro, la scelta delle dimensioni, degli strumenti, la fisicità o la leggerezza delle modalità di lavoro, sono tutti strumenti di comprensione ineludibili per chiunque voglia capire come pensa e agisce un artista. Ovviamente non per tutti è così, poiché molto spesso capita di incontrare giovani artisti concettuali che hanno più disegni ed idee sul computer che opere.
Se il curatore lavora a distanza (a vicinanza telematica, per dire il vero) a mio avviso prediligerà frequentemente opere che funzionino senza fisicità, per le quali la visione retinica non è così importante, ma – al contrario – la logica ed il pensiero hanno la forza maggiore. Ci sono infatti opere che funzionano per idee ed opere che funzionano se c’è qualcuno che le guarda dal vero, in forma consapevole.
Vuoi vedere che è per questo aspetto di distanza che i pigri curatori italiani snobbano lavori che debbono essere visti (come spesso capita con la pittura) a favore di altri che possono essere capiti e raccontati in forma scritta, di immagine riprodotta, e di idea trasmissibile e raccontabile?

Auguri Gillo, uomo libero!

Ho avuto la fortuna di conoscere Gillo Dorfles grazie agli amici di Trieste Contemporanea. In maniera particolare mi è capitato di pranzare con lui un paio di volte, una delle quali – in occasione del festival Comodamentetête à tête, in compagnia di una cara amica. In quell’occasione abbiamo parlato di politica e libertà di stampa: “C’è poca libertà nel nostro Paese”, era quello che cercavo di sostenere io, mentre lui candidamente mi ha spiegato che in realtà il vero problema è che non ci sia più, poiché qualcuno c’è l’ha scippata, seppur dolcemente. “Pochi si sono accorti che sono stati derubati, anzi le direbbero di essere più liberi di trent’anni fa, dato che ci hanno ormai convinti che il campo di tutte le nostre disponibilità sia ampiamente cresciuto. La libertà di stampa che abbiamo noi, confrontata con altri paesi, è perfino imbarazzante”.
Non so se avrò ancora la fortuna di conversare con quest’uomo nato proprio centro anni fa quando a Trieste c’era ancora l’Impero Asburgico. Ma queste parole per me saranno per me indelebili. Tanti auguri Gillo, per il suo secolo di vita all’insegna dell’anticonformismo.