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Non sopporto più l’Italia

Cara Italia, insieme a te non ci sto più. Non sopporto più niente. E non mi basta guardare le nuvole laggiù: ne ho le palle piene di tutto.

Non sopporto più le persone mediocri che si nascondano nel marasma indistinto di questo paese in cui il puzzo di morto non si sente solo perché mascherato dagli ultimi istanti di profumo prodotto in un glorioso passato. Non sopporto il fascismo cafone che c’è in giro, culturale, economico, sociale. Non sopporto la classe politica di sporchi arraffoni che ci governa – dai comuni al parlamento – e quella di spocchiosi filibustieri che finge di esserle diversa. Non sopporto l’incompetenza di molti funzionari pubblici, pagati spesso per lavarsi le mani e non prendersi alcuna responsabilità. Non sopporto i migliaia di insegnanti che scaldano la cattedra solo per lo stipendio. Non sopporto chi non paga le tasse e si ritiene furbo. Non sopporto chi si occupa di arte e approfitta delle speranze degli altri senza mai essere generoso. Non sopporto gli imprenditori che non hanno mai inventato niente o che pensano di essere classe dirigente solo perché hanno un reddito disponibile che è dieci volte quello dei propri dipendenti. Non sopporto chi si ritiene la sinistra diversa dal resto: la diversità è morta con Berlinguer.
Non sopporto più niente, nell’ennesimo ferragosto di merda. E non so dove voltarmi per respirare.

La cultura e la pochezza della sinistra

“Il sistema europeo, che considera la cultura un bene collettivo da valorizzare, è l’unico adatto a questo continente. I partiti della sinistra europea dovrebbero adoperarsi per mantenere i valori dello stato sociale, che però, viste le difficoltà della situazione odierna e la forte concorrenza dei paesi emergenti, può essere difeso solo in modo nuovo rispetto al passato. Mi sembra tuttavia che la sinistra non sia sorretta da un pensiero sufficiente a una realizzazione tanto complessa”.

Maurizio Pollini, La Repubblica, 3 dicembre 2010

La cultura, il pane, Tremonti e la sorella di

Povero Giulio Tremonti. Ho molta pena per lui. Non gli è bastato avere l’erre moscia da primo della classe, la boccuccia da saputello e la proverbiale capacità di previsione sull’andamento dell’economia di cui ci ha dato esempio superlativo Corrado Guzzanti (se non avete mai visto guardate qui). Pensate che sfiga. Lui che avrebbe sposato la fancazzistica dottrina del laissez faire, laissez passer si è trovato ad agire con la scure per tagliare gli sprechi e i condoni per il recupero di qualche euro furbetto (guai a toccare Sant’Evasore). Per colpa dell’Europa urgono politiche di rigore e non è colpa sua se lo stato italiano sguazza nel guano ed ormai non ci sono più quattrini. Mancano i soldi per tutto, i lavori pubblici, la riforma dell’università, le pensioni, la cultura, come avevano annunciato le Cassandre di sinistra, che evidentemente portano tanta di quella sfiga che nemmeno Nostradamus avrebbe mai immaginato.
E comunque con la cultura non si mangia, non è certo come il pane, tanto più in un paese di ignoranti come il nostro. E chi se ne frega dei nostri vecchissimi beni culturali, visto che – se non ci fosse ‘sta mentalità statalista ed immobilista – potremmo cartolizzarli o venderli ai cinesi! E l’arte contemporanea? Tremonti la sta appoggiando come si deve, almeno da quanto si vede dalle opere della sorella Angiola esposte alla Villa Reale di Milano.
Giulio, sei il mio mito.

Quirino Principe e la difesa della cultura

In occasione del festival Comodamente ho avuto il piacere di conoscere e scambiare qualche parola con Quirino Principe, che conoscevo come un dei maggiori critici musicali italiani, solo da lettore, per il suo meraviglioso libro su Mahler e per gli articoli sul Domenicale del Sole.
A margine di un dibattito sulla musica (in cui ha spiegato che la polarità classica/leggera con cui siamo soliti classificare i brani va invece ricondotta a musica forte/debole, in base alla consistenza del pensiero che le ha prodotte), abbiamo discusso dello stato della cultura in Italia – davvero disarmante – e della necessità di porre un argine a quella che potremmo chiamare senza remore cultura bassa. La cultura bassa non è altro che chiacchiere e marketing serviti in maniera furba e al passo coi tempi per sembrare cultura. Si tratta cioè di una psuedocultura da intrattenimento costante, se non proprio di una controcultura pensata per distrarre le persone dalle attività di pensiero, visto il posto smisurato che occupa nel nostro paese (la “p” è minuscola per scelta).
I responsabili? La P2, la Chiesa, i politici di ogni parte e gli intellettuali minchioni della sinistra che non hanno quasi mai combattuto per fare della cultura un fatto popolare. Sono rimasto letteralmente impressionato dalla coincidenza della diagnosi di Principe con la mia, ma anche dal guizzo luciferino con cui mi ha consigliato di “spargere veleno” nei miei pensieri, nelle mie riflessioni, nelle mie parole. La battaglia, forse, non è ancora persa del tutto.

La cultura è improduttiva?

 

In un bel articolo uscito su la Repubblica giovedì, Salvatore Settis fa un’analisi in cui spiega come la tendenza a tagliare i fondi alla cultura – tanto più in un frangente di difficoltà economica – sia comune a tutte le forze politiche del nostro Paese. “Destra e sinistra troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell’Economia di Crisi”, scrive. Settis cita poi un intervento di Vincenzo Cerami su l’Unità in cui l’intellettuale spiega come la classe politica e la classe dirigente non abbiano una “cultura della cultura”. Entrambe infatti non hanno mai percepito come “le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola abbiano una funzione alta e insostituibile nella società”. In particolare perché “sono […] il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme”.
È un destino amaro infatti occuparsi di cultura qui in Italia. Non c’è la consapevolezza che la cultura sia un’attività produttiva, con le potenzialità per costruire innovazione, crescita e sviluppo. Invece cultura, arte e musica – nella percezione comune di politici, classe dirigente e società – sono solo improduttivo passatempo da lacchè o intrattenimento da sfigati topi da biblioteca.
Per onestà va però detto che per troppo tempo (e tutt’ora!) gli intellettuali e tutti coloro che si sono occupati di questi settori hanno evitato di sporcarsi le mani con l’economia vera, preferendo una posizione elitaria e purista, ma da elemosinanti che bussano alla porta del potente di turno, piuttosto che rivendicare un ruolo attivo e consapevole e con dinamiche economiche reali.
Il conto lo abbiamo pagato carissimo. Forse è giunta l’ora di cambiare, veramente.