Tempo fa ho avuto il piacere di fare una conversazione con Jiri Kovanda, uno degli artisti concettuali più attenti e raffinati sin degli anni Settanta, giustamente riscoperto nell’ultimo periodo per l’interesse della sua ricerca sulla gestualità, sulla spazialità del corpo e sulle implicazioni scultoree che intercorrono tra individuo e contesti aperti.
L’avevo conosciuto ancora nel 2007, in occasione della sua partecipazione al festival Tina-B di Praga con un’azione pubblica. Nello stesso luogo dove trent’anni prima aveva realizzato una performance in cui grattava un muro con le unghie delle sue mani (era un modo per interrogarsi sulle difficoltà di vivere in un paese senza democrazia), si era seduto a per limarsi le unghie, con molta nonchalance, quasi a testimoniare la condizione di impotenza dei tempi attuali, in cui siamo costretti ad essere semplicemente spettatori della realtà, di decisioni e scelte prese altrove: l’artista – ma la condizione è comune alla classe intellettuale, anche della nostra nazione – non è più in grado di incidere sul tessuto sociale e non gli rimane che farsi la manicure.
Tra le tante cose che mi hanno colpito nelle sue parole, c’è l’analisi di come i paesi comunisti dell’Est Europa (in cui esisteva un estetica realista di regime) abbiano condizionato gli artisti costringendoli a lavorare in vere e proprie nicchie. Si sono così sviluppate le pratiche performative, azioni delle quali non rimane traccia visibile, e parallelamente si è registrata una grande l’attenzione agli aspetti concettuali e formali in qualche modo minimalisti, incapaci per l’autorità politica di avere effetti critici sul regime.
Così, incredibilmente, la mancanza di libertà ha reso la ricerca ancora più spinta e pregante. Peccato che la tradizione storiografica sull’Europa orientale non sia altrettanto ferrata di quella sull’Europa occidentale o americana: bisognerà evidentemente discuterne ancora.
E comunque era la prima volta in cui sentivo parlare degli aspetti formali come un ripiego. Chissà cosa ne pensano i nostri giovani artisti ammazzati dal’accademismo da compitino concettuale.
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L'arte concettuale? Per induzione. Parola di Hilla Becher
Ho avuto la fortuna di conoscere Hilla Becher in occasione della mostra organizzata a Bologna l’anno scorso presso il Museo Morandi a Bologna. Mi è piaciuta molto questa signora ormai anziana in grado di esprimersi, come tutte le persone davvero grandi, con semplicità ed immediatezza. In particolare mi hanno colpito le sue parole riguardo i primi anni di lavoro assieme al marito. “Le tipologie”, mi ha spiegato “sono nate dopo anni passati a scattare ricercando di standardizzare il processo di ripresa. L’idea che le foto potessero essere in relazione nasce solo dopo lunghi mesi di osservazione”.
Sono stato felice di sentire quelle riflessioni, tanto più perché provano come l’arte concettuale abbia anche matrici induttive, contrariamente alla vulgata che tanto si ascolta in giro e che congela l’atto creativo nell’idea. Che è spesso quello che tanti cattivi e professori insegnano ai nostri studenti nelle accademie, ammorbandoli con elucubrazioni sui progetti e contemporaneamente sottraendo al fare arte la dimensione pratica. Invece, almeno per la coppia tedesca, l’arte si è sviluppata a posteriori, ed il pensiero è stato generato dall’interazione reale/concetto mediata dall’artista e dal tempo. In barba “ai maligni e ai superbi” teorici idealisti.
Panza di Biumo non resti un caso isolato
Mi è molto dispiaciuto che un paio di giorni fa Giuseppe Panza di Biumo sia venuto a mancare. Lui per me rappresenta un modello prestigioso di intellettuale: è il collezionista che ha capito come, grazie alle sue scelte e al suo gusto, sia possibile intervenire sulla realtà. Chiariamocelo: Panza è una persona con un patrimonio cospicuo e che gode di molte agiatezze sconosciute ai più del suo tempo. Ma la sua azione non è un fatto di ricchezza (benché ricchezza sia necessaria), quanto di rinnovamento culturale e, parallelamente, di allargamento e democratizzazione dell’arte.
Negli anni Sessanta all’Italia – paese in cui molti sono attardati a celebrare i fasti del proprio passato – Panza di Biumo propone invece l’arte del Nuovo Mondo, che parla con alfabeti che non puzzano di accademia o di bella pittura. Ha contatti con i più importanti artisti concettuali e minimalisti, e con i direttori di museo, grazie ai quali decide di lasciare parti della sua enorme collezioni ovunque (consiglio a proposito di leggere le sue parole nei due libri di Jaca Book Ricordi di un collezionista e L’arte degli anni ’50, ’60, ’70). Negli anni successivi apre la sua dimora al pubblico, non smettendo mai di sostenere le idee ed i valori estetici degli artisti amati.
Il suo ruolo è stato nel complesso ibrido: un po’ collezionista, un po’ mecenate. Di sicuro “popolare” nel senso Gramsciano del termine, il che lo fa essere un unicum nel panorama italiano. Tanto di cappello, spero siano in molti ad imitarlo.