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Il vizio intellettule del curatore

Ho letto in un catalogo l’ennesimo testo incomprensibile e difficile scritto per una mostra che tra l’altro non mandava in estasi. Ovviamente il curatore si è sfogato con un collage filosofico citazionistico da brivido – gli autori erano tutti i francesi e i tedeschi di prima scelta – e la sintassi era chiaramente di ispirazione latina, con ipotassi annidate e frasi in cui si annaspa prima di arrivare ad un punto (ho contato una frase con oltre 190 parole; considerate ad esempio che la frase un po’ lunga che avete appena letto, da “Ovviamente” a “un punto”, ne contiene circa 48). Non sono riuscito a capirne niente, pur ritenendomi un lettore non di primo pelo.
Ma a chi serve l’ennesima masturbazione mentale sulle idee altrui? Che servizio può dare un testo che non aiuta a capire il lavoro di un artista, ma al contrario lo cela mostrando invece l’esimia conoscenza libraria del curatore? Perché devo perdere del tempo per sapere che il curatore è un figo piuttosto che per capire il valore di una ricerca artistica?
La risposta è presto detta. “In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tradizione di casta […]. La tradizione è libresca e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese osiciliano”. Non è cambiato niente da quanto scriveva in carcere settant’anni fa Antonio Gramsci? Per molti curatori pare proprio di no. Fanculo.