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Desperate Winehouse


Per la morte di Amy Winehouse, come stancamente è abitudine in queste situazioni tragiche, si sono usate tutte le classiche parole del mondo dello showbiz nel momento in cui qualcuno viene a mancare. Talento, energia, bravura, sfrontataggine, genialità, eccetera, il lessico è quello che serve a conferire alla cantante inglese l’aura del mito. D’altro canto è pur vero che morire a ventisette anni non è cosa di tutti i giorni, come hanno tragicamente sperimentato Jimi Hendrix o Kurt Cobain. Ma se passare a miglior vita entro i trent’anni è certa conditio sine qua non
, fa specie questo continuo parlare di lei come se fosse stata una persona che ha cambiato il panorama musicale, e non, in buona sostanza, una stravagante consumatrice di droghe che sa cantare molto bene.
Sia chiaro che la Winehouse era musicalmente molto dotata, ma non era certo John Lennon. Eppure il gregge di pecorelle ha cercato di farne l’ultima entrata nella hall of fame dei geni incompresi morti da giovani. Esiste infatti una grande differenza tra avere anche uno smisurato talento ed essere un fuoriclasse: la riproducibilità, l’essere autenticamente differente. Nessuno ad esempio era in grado di pensare e scrivere Come together nel ’69, eccetto i Beatles, mentre la nostra Winehouse è stata una semplice meteora gradevole, che – va detto – non ha mai nascosto al pubblico la sua eccentricità e la sua cupio dissolvi.
Non capisco infatti i motivi di questi continui tributi, milioni di persone che riempiono il proprio vuoto (intendo quello proprio, non quello indotto dalla morte della cantate inglese) postano canzoni e tutto il resto, come solerti pecorelle del gregge globale. Vabbè fa niente, meglio di niente, ma basta oggi, tana libera tutti. E magari fateci ascoltare un po’ di Talking Heads.