Categoria: cultura

La cultura è improduttiva?

 

In un bel articolo uscito su la Repubblica giovedì, Salvatore Settis fa un’analisi in cui spiega come la tendenza a tagliare i fondi alla cultura – tanto più in un frangente di difficoltà economica – sia comune a tutte le forze politiche del nostro Paese. “Destra e sinistra troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell’Economia di Crisi”, scrive. Settis cita poi un intervento di Vincenzo Cerami su l’Unità in cui l’intellettuale spiega come la classe politica e la classe dirigente non abbiano una “cultura della cultura”. Entrambe infatti non hanno mai percepito come “le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola abbiano una funzione alta e insostituibile nella società”. In particolare perché “sono […] il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme”.
È un destino amaro infatti occuparsi di cultura qui in Italia. Non c’è la consapevolezza che la cultura sia un’attività produttiva, con le potenzialità per costruire innovazione, crescita e sviluppo. Invece cultura, arte e musica – nella percezione comune di politici, classe dirigente e società – sono solo improduttivo passatempo da lacchè o intrattenimento da sfigati topi da biblioteca.
Per onestà va però detto che per troppo tempo (e tutt’ora!) gli intellettuali e tutti coloro che si sono occupati di questi settori hanno evitato di sporcarsi le mani con l’economia vera, preferendo una posizione elitaria e purista, ma da elemosinanti che bussano alla porta del potente di turno, piuttosto che rivendicare un ruolo attivo e consapevole e con dinamiche economiche reali.
Il conto lo abbiamo pagato carissimo. Forse è giunta l’ora di cambiare, veramente.

Meglio il porno che Sanremo

 

Sta per finire la settimana di Sanremo. Quasi non me ne sarei accorto se giornali, internet e radio non avessero parlato d’altro nella sezione di cultura o spettacoli. A un livello da follia.
Prima Morgan il drogato impenitente, poi il rampollo savoiardo che canta con non so chi, poi la conduttrice troppo popolana, poi Carla Bruni che fa la sborona e non ci va, e chissà quali altre cagate alla ricerca dell’ennesimo (finto) scandalo… Ora andranno avanti qualche giorno con interviste della serie “che emozione vincere a Sanremo”, con il carrozzone sui partecipanti secondi, eccetera.
Quanto mi piacerebbe che in questa settimana, anziché questo spettacolo osceno, Rai Uno avesse trasmesso un bel e moralissimo porno d’autore, magari di Andrew Blake. Da dare una bella scossa a questo pubblico di persone – in coma quasi irreversibile – che ama seviziare il proprio cervello con cazzabbubbole da brivido.

 

Le prime uscite sulla Sgarbi-Biennale

Devo ammettere che le uscite di Vittorio Sgarbi sulla Biennale mi hanno stupito piacevolmente. Affidare il padiglione italiano ad insigni uomini di cultura vuol dire assumersi i rischi di mettere in mostra quanto l’arte contemporanea sia o non sia parte del sistema culturale del nostro paese. “Sono sicuro che ne uscirebbe un quadro più interessante di quanto possano dare i soliti critici, esponenti del commercio e del collezionismo di mestiere, tendenzialmente isolati dal tessuto più vivo della società italiana”, dice Sgarbi. E ha perfettamente ragione.
Perché – questo dobbiamo dircelo chiaramente – qui da noi il contemporaneo è comunque espressione di una piccola élite, o, meglio si farebbe dire, di una (mafiosa?) setta di adepti. Non ci sono confronti con gli altri paesi industrializzati, in cui produzione e idee sono sistematiche e si relazionano col complesso di attività culturali sviluppate.
Vogliamo mostrare quanto conta sul sistema-paese il lavoro fatto dal carozzone del contemporaneo? Forse molti di noi smetteranno di fare gli alteri, scoprendo non solo di essere nudi, ma di non essere nemmeno dei re.

Povero Louvre che racconta balle

E’ un pezzo da capogiro: 65 metri quadrati di pittura ad olio con oltre centoventi figure rappresentate. Stiamo parlando delle Nozze di Cana di Veronese, che fino alla fine del Settecento se ne stava all’Isola di S.Giorgio a Venezia, nel refettorio dei frati benedettini. Furono le truppe al seguito di Napoleone a prelevarlo dalla città per portarlo a Parigi come bottino, e a nulla valsero gli sforzi di Antonio Canova per ricollocare quel pezzo meraviglioso nel convento originale. Sono notizie molto note e che appartengono alla storiografia.
In una recente visita al Louvre ho constato con sorpresa che le schede esplicative della tela in sala raccontano come il lavoro del Veronese “sia stato asportato da Venezia nel 1797,  in virtù del trattato firmato dal Direttorio con la Repubblica di Venezia”. Peccato che la Repubblica non esistesse già più.
Quel capolavoro i francesi lo hanno rubato, il che ne dimostra ancor di più la preziosità, ma non lo vogliono dire. Capisco la grandeur, ma non avrei mai detto che in un museo così importante i cugini d’oltralpe arrivassero a raccontare delle balle ai visitatori. Allons enfants de la mensonge!

Cattivi pensierini per l’anno nuovo

 

Caro 2010, ti scrivo perché vorrei che tu fossi un po’ meno peggiore per l’arte dell’anno appena concluso. A partire dall’alto mi piacerebbe che ci fosse un ministro dei Beni Culturali più attento e presente (e che sappia trovare per la Biennale del 2011critici più bravi di quelli che hanno curato questa appena archiviata!); assessori e politici meno invadenti e meno pasticcioni, dato che quelli competenti praticamente non esistono; amministratori più attenti a spendere i soldi nelle cose di qualità e in grado di compiere qualche scelta strategica, di cui abbiamo molto bisogno.
Non mi dispiacerebbe poi che poi l’onestà intellettuale fosse il pane quotidiano dei colleghi giornalisti ma anche dei curatori e dei critici. Anzi, fa’ qualcosa, ammazzane quattro/cinque tra i soliti fighetti dall’ego incontenibile e qualcuno dei vecchi eternamente presenzialisti: non ne sentiremo la mancanza!
Visto che ci sei, caro 2010, accoppa pure qualche artista e qualche gallerista incompetente: penso tu abbia l’imbarazzo della scelta. E non dimenticarti pure dei direttori di museo, che siano solo i bravi a rimanere, ok?
Fai il bravo, anno nuovo. Ma ho come la sensazione che anche tu mi farai incazzare…

Petizione per Rivoli. Azzeriamo le nomine

Rivoltiamo Rivoli. A questo punto della vicenda – benché personalmente non mi dispiacesse la formula bicefala con un curatore italiano ed uno internazione come era Be llini/Hoffmann – pare una necessità chiedere al CDA del museo torinese e ai due neodirettori di dimettersi. Discutibile l’abbinata, inaccettabili le modalità e le pressioni della politica.
Sono stato invitato a sottoscrivere questo appello e non posso esimersi dal farlo. Con i migliori auguri per una soluzione all’altezza della fama dell’istituzione.

 

La conclusione della vicenda per la nuova direzione del Castello di Rivoli lascia tutti gli addetti ai lavori dell’arte contemporanea, oltre che stupiti, amareggiati e delusi. Anche indipendentemente da un giudizio di merito su qualità professionale, curriculum e progetti proposti dai due nuovi condirettori, il metodo seguito per la nomina ha purtroppo confermato le preoccupazioni da più parti emerse in precedenza.
1) la ripetuta, pubblica pressione esercitata dall’assessore alla cultura Oliva ha pesantemente condizionato tutto l’andamento della procedura di nomina;
2) la nomina di Giovanni Minoli a Presidente del Consiglio di Amministrazione è stata evidentemente ispirata non da criteri di professionalità e conoscenza del settore, ma per garantire con un nome di grande impatto mediatico le decisioni del Consiglio stesso;
3) le procedure di selezione dei candidati e di valutazione dei loro progetti non sono state ispirate a trasparenza e, soprattutto, la decisione finale è stata presa da una sola persona (Minoli stesso) che ha candidamente ammesso, fra l’altro, di essere stato a Rivoli l’ultima volta nel 1985 e di non parlare l’inglese (ciò che evidentemente non rende possibile un’analisi approfondita ed oggettiva dei progetti presentati da candidati non italiani);
4) la gestione della comunicazione seguita alla nomina della coppia Bellini-Hoffmann e soprattutto le pesanti, gratuite e non smentite dichiarazioni di Minoli secondo le quali Hoffmann, con la sua rinuncia, si sarebbe comportato come “un bandito” o come “un calciatore di terza categoria” gettano un’ombra sulla statura morale e sull’adeguatezza umana e gestionale dell’attuale Presidente del Consiglio di Amministrazione del Castello di Rivoli.
Visto tutto ciò i sottoscritti ritengono che, per dimostrare dignità e correttezza, l’unica cosa che Giovanni Minoli potrebbe a questo punto fare è di rassegnare le dimissioni da Presidente del Consiglio di Amministrazione del Museo di Arte Contemporanea Castello di Rivoli.
Parimenti i due nuovi direttori Beatrice Merz e Andrea Bellini, per sgomberare il campo da ogni sospetto di nomina pilotata e non ispirata a valutazione di merito, dovrebbero anch’essi rassegnare le dimissioni cosicché un nuovo Consiglio di Amministrazione possa finalmente procedere alla nomina di una giuria internazionale e ad un reale concorso per la nuova nomina del Direttore, finalmente con criteri di trasparenza e di meritocrazia.
Solo in tal caso le sgradevoli e imbarazzanti vicende delle ultime settimane potranno dar luogo ad una vera opportunità e potranno essere di esempio per le procedure di nomina anche nel resto del Paese.

 

Quant’è bella leggerezza

Due kili e seicentocinquanta grammi. Questo il peso del poderoso catalogo a corredo della mostra Giorgione inaugurata settimana scorsa a Castelfranco. Oltre  cinquecento pagine e stampa di buon livello: è quello che comunemente si considera un bel tomo, uno di quelli che in libreria si fa notare, anche a distanza, per il dorso corpulento.
Eppure, nonostante il parterre di storici dell’arte invitati a scriverci (spero cose intelligenti), diventerà il milionesimo postmoderno monumento a Gutemberg, alla carta e al denaro sprecati.
Pensiamoci su: a chi giova stampare un volume simile? Gli addetti ai lavori lo useranno per i saggi, il che rende superfluo l’apparato iconografico; i comuni amanti dell’arte lo troveranno fuori misura e non proprio a portata di portafoglio.
Quindi soldi spesi per nulla. Per l’autostima degli studiosi che hanno preso parte al progetto, per i quali “più grande è, meglio è” (il catalogo). Per i politici che potranno vantare un mattone in più nella propria carriera politica. Per i giornalisti che avranno una preda ulteriore nel carniere che non avranno però mai il tempo di leggere. Per l’editore che qualche quattrino se lo fa di certo.
Che spreco, non era meglio fare un volumetto agile e poi un bel pdf da mettere in chiavetta a spese zero? Siamo un gruppo di romantici spreconi. Eppure la leggerezza dell’editoria digitale è proprio lì dietro l’angolo…

Il vizio intellettule del curatore

Ho letto in un catalogo l’ennesimo testo incomprensibile e difficile scritto per una mostra che tra l’altro non mandava in estasi. Ovviamente il curatore si è sfogato con un collage filosofico citazionistico da brivido – gli autori erano tutti i francesi e i tedeschi di prima scelta – e la sintassi era chiaramente di ispirazione latina, con ipotassi annidate e frasi in cui si annaspa prima di arrivare ad un punto (ho contato una frase con oltre 190 parole; considerate ad esempio che la frase un po’ lunga che avete appena letto, da “Ovviamente” a “un punto”, ne contiene circa 48). Non sono riuscito a capirne niente, pur ritenendomi un lettore non di primo pelo.
Ma a chi serve l’ennesima masturbazione mentale sulle idee altrui? Che servizio può dare un testo che non aiuta a capire il lavoro di un artista, ma al contrario lo cela mostrando invece l’esimia conoscenza libraria del curatore? Perché devo perdere del tempo per sapere che il curatore è un figo piuttosto che per capire il valore di una ricerca artistica?
La risposta è presto detta. “In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tradizione di casta […]. La tradizione è libresca e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese osiciliano”. Non è cambiato niente da quanto scriveva in carcere settant’anni fa Antonio Gramsci? Per molti curatori pare proprio di no. Fanculo.