“I Bronzi di Riace non si muovono”. Questa in sintesi la risposta di Simonetta Bonomi, Soprintendete di Reggio Calabria, alla proposta di Mario Resca di portarli in giro (per il mondo? per l’Europa?) per farne degli strumenti di promozione del nostro territorio. Il Direttore Generale per la Valorizzazione del Patrimonio aveva spiegato come le due opere fossero nel museo “a prendere la polvere”, mentre in realtà sono in restauro, come si può vedere qui (restauro che può essere seguito anche dai visitatori).
Se quella di Resca pare una boutade (la media di visitatori al Museo Archeologico di Reggio dove sono ospitati è negli ultimi anni poco sotto le 130mila persone l’anno, a quanto si legge nel sito dei musei calabresi), è vero però che una gestione più manageriale e meno conservatrice dei musei gioverebbe. “Spesso le opere vengono richieste in prestito solo per fare eventi mediatici senza alcun progetto scientifico”, questo il pensiero dei Soprintendenti. Ma è pure vero che senza spettacolo non si mangia, e che una circuitazione delle opere che non hanno problemi di conservazione gioverebbe a tutti.
L’idea di base su cui ci si scontra è se il patrimonio artistico possa o meno essere utilizzato per generare profitti grazie alle leve di marketing e comunicazione. Io, candidamente, sono favorevolissimo. Il che non vuol dire di portare Raffaello alle sagre, ma pensare che il patrimonio sia una cosa disponibile e non un valore indisponibile e solo da custodire.
Sottrarsi all’aspetto mediatico anziché sfruttarne le potenzialità, nell’arte come in altri settori, è solo nocivo. E infatti la risposta giusta della Soprintendente di Reggio sarebbe dovuta essere: “ma perché non facciamo una mostra, con prestiti importanti da altri musei, a Reggio Calabria, così valorizziamo la collezione e i nostri tesori? Sarei felicissima se il dott.Resca ci desse una mano a trovasse i fondi necessari”.
Ma invece la Bonomi è caduta nella provocazione. Così siamo presi tra gli opposti massimalismi di chi essenzialmente vuole custodire e di chi invece pensa solo al marketing, senza capire che una terza via è possibile (Louvre dove sei?). E ci converrebbe davvero.
Categoria: cultura
Gli italiani? Gran scrocconi al museo

Peccato che nessuno invece si occupi di un fattore chiave: perché gli italiani vanno al museo così poco? E poi perché ci vanno soprattutto scolaresche e pensionati in gita mentre la fascia centrale di età è reticente?
La risposta è semplice: i musei italiani sono spesso cosa da formalina che spesso spendono tutti i soldi per il mantenimento della struttura né hanno le possibilità economica e le idee per avvalorare le collezioni che possiedono (e molti dei musei piccoli hanno collezioni non di pregio). Spesso sono inutilmente aperti aumentando solo i costi e, cosa che l’indagine non dice, a fronte di un gran numero di siti diffusi nelle nostre piccole cittadine – è la vera ricchezza del nostro patrimonio – solo pochi hanno dei numeri interessanti di visitatori.
E allora perché non metterli in rete e sviluppare delle sinergie per stare al passo con i tempi e far conoscere il nostro petrolio? Forse a quel punto sarà lecito chiedere qualche euro per l’ingresso, se si spiega che, sotto casa, molto spesso c’è un tesoro.
Sgarbi: voglio lotto alla Biennale

Proposte che non sono male. Vi ricordate il miracolo di Artempo in cui le carte erano magicamente mischiate? Miracolo, appunto, che capita di rado. E comunque peccato che lo scopo della mostra ospitata al padiglione italiano sia – per statuto – ben altro, cioè promuovere e mostrare le ultime ricerche nel campo del nostro Paese. Ma ovviamente Sgarbone avrà carta bianca dall’incompetente Bondi e probabilmente il presidente Baratta non farà tanti casini, per evitare strumentalizzazioni politiche e perdite di poltrone.
Alla fine avremo un sacco di persone che si vedranno il pur stratosferico Lotto col biglietto della Biennale, mentre gli sfigati artisti contemporanei ce li beccheremo in giro per la città. Un po’ come capita ai paesi che il padiglione non ce l’hanno. Ma questa volta, ne siamo sicuri visti i gusti da muffa dello Sgarbone, non se ne accorgerà nessuno.
Liste di opere e di artisti
La lista è un piacere intellettuale vertiginoso, come ricorda Umberto Eco, che al tema ha dedicato un bel progetto a Parigi lo scorso inverno. Ma anche più prosaicamente Leporello in una delle arie più note del Don Giovanni – musicato da Mozart su libretto di Da Ponte – spiega quanto questo sia un piacere sublime, che mette insieme eros e gioco mentale.
Al potere delle liste ci sto pensando da qualche settimana. Sto lavorando a tre mostre collettive, due delle quali a quattro mani con un altro curatore. E’ un lavoro stimolante: stabilite le idee di fondo, le linee guida su cui costruire le esposizioni, stiamo scambiandoci e confrontandoci su liste di opere o artisti.
Si tratta di un lavoro di piccole modifiche, di aggiustamenti successivi. Ci si confronta su punti di vista differenti finché si trova un equilibrio che permetta cioè di soddisfare gli stimoli di entrambi. Poi ovviamente vi saranno altri bilanciamenti, dovuti alla disponibilità degli artisti, agli allestimenti eccetera. In ogni lista si nasconde una micro o macro visione del mondo. Anche quello dell’arte.
Al potere delle liste ci sto pensando da qualche settimana. Sto lavorando a tre mostre collettive, due delle quali a quattro mani con un altro curatore. E’ un lavoro stimolante: stabilite le idee di fondo, le linee guida su cui costruire le esposizioni, stiamo scambiandoci e confrontandoci su liste di opere o artisti.
Si tratta di un lavoro di piccole modifiche, di aggiustamenti successivi. Ci si confronta su punti di vista differenti finché si trova un equilibrio che permetta cioè di soddisfare gli stimoli di entrambi. Poi ovviamente vi saranno altri bilanciamenti, dovuti alla disponibilità degli artisti, agli allestimenti eccetera. In ogni lista si nasconde una micro o macro visione del mondo. Anche quello dell’arte.
Italiani brava gente

Questo è quello che scrive Maurizio Viroli in La libertà dei servi, uscito per Laterza. Ne parla Andrea Romano sulllo scorso Domenicale (trovate il pezzo qui), e, come spesso fanno gli intellettuali, sottostima la portata di Berlusconi spiegando che il Nano malefico ha realizzato ben poco del proprio progetto politico poiché “l’impressione che si ricava in prospettiva storica, guardando ai quindicennio del potere berlusconiano, è che il Cavaliere sia riuscito a far ben poco di quello che aveva in mente. Sia che nella testa del Cavaliere versione 1994 vi fosse un programma orgogliosamente liberale e liberista sia che si trattasse invece di un piano teso a conculcare le nostre libertà civili, il berlusconismo si avvia ad essere ricordato soprattutto come una lunga parentesi di declino nazionale sulla quale molto più dell’onnipotenza ha pesato l’impotenza della politica”.
Al contrario di Romano penso che invece politicamente qualcosa sia cambiato, più sul piano delle consuetudini, delle prassi. Una per tutti il continuo stillicidio di leggi ad personam. Se fino alla Prima Republica prima infatti si corrompevano i giudici per non essere indagati, ora si lavora sulle leggi per farla franca e togliere le ipotesi di reato.
E poi, soprattuto, il degrado morale. Per lo più ostentato. Mi sento in mezzo a gente onesta che, se potesse, delinquerebbe esattamente come fa la casta. La cultura dell’onestà di matrice cattolica e marxista è stata completamente rasa al suolo. Ora, quel che resta della classe più povera sogna di fottere tutti come chi sta ai vertici.
Roma, il Cupolone e la città in largo

Oh bene, finalmente un’idea! A mio avviso però Alemanno non centra la questione, dato che il problema non è tanto come costruire, ma che idea di ha della città. Pensare a periferie con palazzi alti equivale infatti a costruire periferie in largo se non si cambia la modalità monofunzionale per cui lavoro, servizi e vita sociale avvengono in centro, mentre la casa è altrove. Bisogna mischiare le cose, rendere la città viva ovunque e smetterla col costruire al di fuori del centro gli ennesimi quartieri dormitorio che arricchiscono i palazzinari e producono bruttezza!
Vernissage alla parigina
Ho avuto il piacere di curare una mostra a Parigi, appena inaugurata ieri (se ne avete voglia trovate qui il testo ed alcune informazioni sugli artisti). La galleria per cui ho lavorato è situata nel Marais, uno dei quartieri più interessanti e culturalmente attivi della capitale francese, cui è stata data una nuova immagine a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con uno di quelle operazioni che risultano quasi impossibili da noi in Italia.
Urbanistica a parte, ieri tutte le gallerie della zona hanno fatto il vernissage insieme, il che ha portato un gruppo enorme di persone a passare nello spazio. Due/tre volte all’anno infatti l’associazione dei galleristi promuove un’inaugurazione collettiva, con evidenti vantaggi per le gallerie ma anche per collezionisti e per il pubblico. La parola magica è ovviamente condivisione.
Ma la cosa che mi ha stupito di più è stato la grande presenza di un pubblico generico, al di fuori cioè di quello di collezionisti e professionisti del settore (artisti, critici, giornalisti). Un sacco di persone, palesemente non addetti ai lavori, è passata in galleria e ha fatto domande informandosi sulla mostra, sulle opere e sugli artisti: cioè l’arte contemporanea non è la solita riserva indiana per fighetti, ma è popolare, quanto meno nel senso che le persone non la percepiscono distante e autoreferenziale.
Noi invece in Italia “continuiamo così, facciamoci del male”.
McCarthy a Milano. Fondazione Trussardi fa ancora centro

Certo una mostra così è vecchia di una decina d’anni, si potrà obbiettare. Ma conviene ricordare che a Milano nessuno l’ha fatta prima. E poi questa città ha smesso di avere una politica culturale vent’anni fa, con il vuoto di Tangentopoli. Non c’è che dire, anche questa volta Fondazione Trussardi merita i complimenti.