Categoria: cultura

L’ignoranza del funzionario

«Cos’è che volete mettere dentro un palazzo rinascimentale con gli stucchi? Video? Ma sono cose che si possono vedere alla tivvù o su internet! Non saranno mica opere, no?». Ridevo di nascosto – ma solo per nascondere la mia profonda disperazione – mentre ero a colloquio con un funzionario di un comune sulla cui testa gravava la competenza di uno dei gioielli architettonici della città.
Non nascondo che ebbi una certa difficoltà a proseguire qualsiasi forma di dialogo, tanto più perché alla profonda ignoranza si sommavano la spocchia di chi ha studiato l’arte antica all’università (supponendo che il mondo si sia fermato nel Settecento) e la totale estraneità al dibattito culturale degli ultimi quarant’anni. Decisi allora di far finta di niente, rimuovendo da me ogni benché minimo tentativo di conversione, poiché le barriere che quella persona aveva eretto attorno a sé risultavano impenetrabili anche al più convincente dei missionari adepti all’arte contemporanea. E poi mi fu subito chiaro che non aveva senso cingere d’assedio una città che conteneva solo pietre.
A mente fredda però mi viene male a pensare che una persona come questa, qui come altrove, sia chiamata a decidere su cosa che non conosce, a dare un parere vincolante, a scegliere se un progetto è o meno adatto al luogo e ai programmi culturali di un comune, o di un altro ente territoriale (capita pure ai ministeri: vedi ad esempio l’idiozia di Sgarbi nominato commissario alla Biennale di Venezia). E questo è uno dei problemi più difficili per chi opera in campo culturale: l’inadeguatezza dei decisori, sia politici che tecnici. Che senso ha cioè passare notti in bianco, sbattersi per elaborare un progetto o immaginare una mostra che porti nuove idee, nuovi punti di vista, se chi decide troppo spesso non sa, non sa, non sa?
A dir il vero ogni tanto accade anche di trovare qualche persona competente, cosa che spinge a meravigliarsi, un po’ come quando capita di trovare una persona educata e gentile allo sportello delle poste. Ma è davvero merce rara. Eppure anche l’attuale diabbolico Ministro per la Pubblica Amministrazione continua demagogicamente ad insistere sul controllo dei funzionari statali più che sulla qualità del lavoro svolgono svolto e sui criteri di selezione. Olè.

Non sopporto più l’Italia

Cara Italia, insieme a te non ci sto più. Non sopporto più niente. E non mi basta guardare le nuvole laggiù: ne ho le palle piene di tutto.

Non sopporto più le persone mediocri che si nascondano nel marasma indistinto di questo paese in cui il puzzo di morto non si sente solo perché mascherato dagli ultimi istanti di profumo prodotto in un glorioso passato. Non sopporto il fascismo cafone che c’è in giro, culturale, economico, sociale. Non sopporto la classe politica di sporchi arraffoni che ci governa – dai comuni al parlamento – e quella di spocchiosi filibustieri che finge di esserle diversa. Non sopporto l’incompetenza di molti funzionari pubblici, pagati spesso per lavarsi le mani e non prendersi alcuna responsabilità. Non sopporto i migliaia di insegnanti che scaldano la cattedra solo per lo stipendio. Non sopporto chi non paga le tasse e si ritiene furbo. Non sopporto chi si occupa di arte e approfitta delle speranze degli altri senza mai essere generoso. Non sopporto gli imprenditori che non hanno mai inventato niente o che pensano di essere classe dirigente solo perché hanno un reddito disponibile che è dieci volte quello dei propri dipendenti. Non sopporto chi si ritiene la sinistra diversa dal resto: la diversità è morta con Berlinguer.
Non sopporto più niente, nell’ennesimo ferragosto di merda. E non so dove voltarmi per respirare.

Renzi riesuma Michelangelo?

Mi è stato difficile trattenere il sorriso. Ci mancava anche che Matteo Renzi nel 2011 proponesse di fare la facciata di San Lorenzo secondo il vecchio progetto di Michelangelo Buonarroti. Il sindaco di Firenze ha in mente infatti di fare un referendum per chiedere ai propri concittadini se preferiscono avere la chiesa con la facciata con la soluzione che era stata messa a punto da Michelangelo cinquecento anni fa (cinquecento!) oppure lasciare la chiesa dove sono sepolti i Medici lì come è adesso. “L’intervento – queste le parole del sindaco – sarebbe un’opportunità interessante funzionale al riammodernamento del quartiere”, ed inoltre si intuisce dal suo ragionamento, potrebbe avere maggior senso di quello “di un archistar di oggi”.
Evidentemente il rottamatore Rienzi ha preso un granchio clamoroso, e non ha senso che lui spieghi in giro che vi sono degli sponsor disposti a credere nel progetto e finanziarlo. Sarebbero comunque soldi buttati ed un falso storico clamoroso. “Una proposta che non sta né in cielo né in terra”, come Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, ha giustamente commentato. Per non parlare poi delle modalità costruttive odierne, che sono di sicuro distanti da quelle artigianali della Firenze del XVI secolo.
Eppure la tentazione passatista nel nostro paese è sempre lì sul banco del politico di turno; anzi ne personifica la mediocrità di pensiero e l’incapacità di proporre il nuovo rischiando la propria poltrona. Vi ricordate il “com’era, dov’era” di Cacciari, un quarto d’ora dopo che si seppe che la Fenice stava bruciando in maniera irreparabile? Il barbuto sindaco di Venezia aveva già pronta in tasca la risposta più facile e politicamente meno problematica: Cacciari sapeva infatti che ogni altra soluzione (auspicabile rispetto alla sua città che è sempre più il trionfo dell’inautentico) sarebbe stata complessa ed articolata, soggetta al dibattito della democrazia e alle lungaggini dei burocrati. Perché esporsi?
San Lorenzo ed il Teatro della Fenice sono due esempi incredibili della modestia della nostra classe politica (o forse della nostra nazione), che non riesce a guardare avanti ne tanto meno liberarsi dei fantasmi del passato, tra cui quello del Rinascimento. Possibile che non si possa pensare ad altro? Lasciamo dormire a Michelangelo sonni tranquilli.

Invito lento

Tutte le volte che mi arriva una lettera o un invito cartaceo mi viene da pensare inevitabilmente alla lentezza. Forse è un po’ colpa dei servizi postali del nostro paese, considerato che ad esempio un invito per la Biennale spedito da Verona a fine maggio mi è stato consegnato la scorsa settimana (40 giorni per fare i 120 km Verona-Conegliano; media 3 km al giorno), come pure quello dell’inaugurazione dell’ultima mostra del Mart, per il quale non sono bastate due settimane per essere a casa mia.
Ma forse l’invito non viene spedito per essere puntuale o per informare (dato che in fondo tutti usano l’email), quanto piuttosto per dare un segnale concreto di esistenza. Dietro la lentezza c’è quindi forse la necessità di voler essere, di dimostrare un concreto substrato fisico e reale, che il mezzo elettronico non possiede. E forse in ricevere qualcosa di fisico c’è il fascino antico della parola scritta che diventa oggetto, epifania. Celebrazione però destinata ad essere uno degli ultimi lembi di Novecento insinuati nel XXI secolo.

Pisciate e insulti. Cari Pajetta e Nenni

Nelle pagine di cultura di Repubblica del 27 giugno si può leggere qualche estratto del carteggio tra Nenni e Pajetta. I due politici, l’uno socialista e l’altro comunista, pur nelle tante ruvidezze del confronto (negli anni Cinquanta e Sessanta lo scontro tra le due anime della sinistra è senza esclusione di colpi), si telegrafano di frequente comunicandosi verità, amarezze, reciproche critiche. E’ l’Italia forse un po’ bachettona del dopoguerra, in cui i politici erano però scelti tra le migliori teste che il nostro paese potesse offrire, senza se e senza ma. L’intelligenza, il ricco vocabolario, l’educazione ed il garbo sono la norma, e si vedono anche negli scambi polemici, nel mezzo della lotta politica.
Incredibilmente è un altro mondo – ormai dimenticato – rispetto agli insulti e alle tremende volgarità di pensiero che si sono letti nei mesi scorsi tra i politici intercettati, al mediocre italiano infarcito di testa di cazzo e di stronzo, (figlio di) puttana, coglione e via dicendo. Sembra proprio che non ci siano altre parole da dire, che le persone siano mancanti (cioè deficienti) del lessico necessario per sostenere uno scontro, scuotere o attaccare un avversario.
Viviamo momenti caratterizzati da un’incredibile apoteosi di stupidità, come testimoniato recentemente anche pisciatiella versata addosso a Sgarbi dalla Ripa di Meana. Alla fine davvero non ci resta che chiudere la tivvù e leggere Calvino.

Biennale. Artisti, rifiutate il nulla…

Continuo a ricevere richieste di consigli da parte di amici artisti incerti e disperati che sono stati invitati alla Biennale di Venezia all’ultimo minuto. Padiglioni regionali, Arsenale, Padiglioni delle Accademie, le opzioni sono diverse e non sempre chiare. Anzi, c’è chi è stato invitato da parte di regioni in cui non lavora né abita. Altri che, pur avendo declinato, si sono trovati nelle pue provvisorie liste presentate alla stampa.
La situazione è decisamente un ginepraio, un moloch incredibile in cui nemmeno gli organizzatori capiscono più qualcosa. Così al telefono capita che abbiano perfino chiesto all’artista con quale regione preferisse partecipare. Va bene pure la Kamchatka.
Grazie Sgarbi, grazie Bondi. Questa è la merda che noi italiani ci meritiamo.

La cultura ed uno sfogo leghista

Non sono mai stato della Lega e mi sono sempre tenuto lontano da ogni ismo che il movimento del Senatùr & Co. hanno sostenuto in tanti anni di celodurismo, bandiere italiane “da appendere al cesso” e tutti i discorsi da circo che sono stati fatti. Ma pure qualche problema intelligente questa forza politica l’ha posto (spesso dandovi risposte sbagliate o non all’altezza). E uno di questi è quanto conti realmente il Nord sul piano nazionale, dato che – per le inefficienze del sistema politico, informativo e culturale – per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione nazionale.
Pensavo questo mentre stavo ascoltando Ventotto minuti su Radio 2, l’insopportabile trasmissione di Barbara Palombelli, esempio della borghesia liberal all’acqua di rose (“de sinistra”), che invitava gli ascoltatori ad andare ad una presentazione di un libro presso l’ennesimo palazzo romano del centro. Ho avuto un attacco di vomito e ho mandato sinceramente a fare in culo lei e chi fa il palinsesto radiofonico.
Non si riesce infatti ancora a rompere questa logica incredibile per cui ciò che capita a Roma o a Milano capita all’Italia intera, anche culturalmente. Nessuno si è accorto che ad esempio il Nordest ha smesso di essere periferia attivando dei processi culturali avanzati (con case editrici, festival, design, gallerie, ecc.) nonostante l’epopea dei mille cornuti – celtici – della Lega, nonostante il sindaco Sceriffo che suggerisce di sparare agli immigrati travestendoli da leprotti, nonostante la simpatia di Brunetta o le puttane di Arcore?

Morbin, Berlusconi e il fascismo che c’è in Me

Mesi fa ho assistito ad una performance di Giovanni Morbin in cui l’artista vicentino gira su se stesso seduto su di uno sgabello (opportunamente dotato di maniglie e di motore elettrico) mentre tenta di pronunciare la dichiarazione di guerra di Mussolini del 10 giugno 1940. Vestito di nero, con l’enfasi e la retorica del Duce, attacca con il celeberrimo “Combattenti di terra, di mare, e dell’aria!”. La velocità di rotazione lo mette però in difficoltà e quando Morbin cerca di mettersi in piedi, scendendo dallo sgabello, finisce per cadere a terra. A quel punto l’artista si risiede e ricomincia da capo con il discorso fino ad una nuova caduta. L’azione si ripete svariate volte, fino a quando egli riesce a correre verso una parete per tracciare con del gesso la “M” di Mussolini ed una piccola “e”. Me è appunto il titolo della performance, in cui l’artista in movimento evoca il bronzeo Profilo continuo (Testa di Mussolini) di Renato Bertelli, opera che è opportunamente presente nel luogo su di un piedistallo.
E’ un lavoro intenso e sinceramente politico, non tanto su quella che è l’eredità del Ventennio, ma su quelle cause antropologiche che lo hanno prodotto, e che certo non sono state estirpate fino alle radici da cinquant’anni di democrazia. Anzi, dalla fine degli Anni Settanta, i tuberi del fascismo sono stati sapientemente innaffiati senza dare nell’occhio, come dimostrano ormai senza pudore i politici per l’arroganza e la cialtroneria, le persone comuni per l’ignoranza e un po’ tutti per la volgarità.
Mi fa paura pensare che abitino nel mio corpo e attorno a me i germi del fascismo, delle braci mai sopite che parevano cenere. Benché critico e fieramente in opposizione a questo fetido ritorno, ad un fascismo nascosto ma dilagante, ho paura di tutti gli anni di feccia berlusconiana che ho succhiato inconsapevolmente sin dalla mia infanzia. E non so se la bellezza ci salverà.