Categoria: costume

Non sopporto più l’Italia

Cara Italia, insieme a te non ci sto più. Non sopporto più niente. E non mi basta guardare le nuvole laggiù: ne ho le palle piene di tutto.

Non sopporto più le persone mediocri che si nascondano nel marasma indistinto di questo paese in cui il puzzo di morto non si sente solo perché mascherato dagli ultimi istanti di profumo prodotto in un glorioso passato. Non sopporto il fascismo cafone che c’è in giro, culturale, economico, sociale. Non sopporto la classe politica di sporchi arraffoni che ci governa – dai comuni al parlamento – e quella di spocchiosi filibustieri che finge di esserle diversa. Non sopporto l’incompetenza di molti funzionari pubblici, pagati spesso per lavarsi le mani e non prendersi alcuna responsabilità. Non sopporto i migliaia di insegnanti che scaldano la cattedra solo per lo stipendio. Non sopporto chi non paga le tasse e si ritiene furbo. Non sopporto chi si occupa di arte e approfitta delle speranze degli altri senza mai essere generoso. Non sopporto gli imprenditori che non hanno mai inventato niente o che pensano di essere classe dirigente solo perché hanno un reddito disponibile che è dieci volte quello dei propri dipendenti. Non sopporto chi si ritiene la sinistra diversa dal resto: la diversità è morta con Berlinguer.
Non sopporto più niente, nell’ennesimo ferragosto di merda. E non so dove voltarmi per respirare.

Desperate Winehouse


Per la morte di Amy Winehouse, come stancamente è abitudine in queste situazioni tragiche, si sono usate tutte le classiche parole del mondo dello showbiz nel momento in cui qualcuno viene a mancare. Talento, energia, bravura, sfrontataggine, genialità, eccetera, il lessico è quello che serve a conferire alla cantante inglese l’aura del mito. D’altro canto è pur vero che morire a ventisette anni non è cosa di tutti i giorni, come hanno tragicamente sperimentato Jimi Hendrix o Kurt Cobain. Ma se passare a miglior vita entro i trent’anni è certa conditio sine qua non
, fa specie questo continuo parlare di lei come se fosse stata una persona che ha cambiato il panorama musicale, e non, in buona sostanza, una stravagante consumatrice di droghe che sa cantare molto bene.
Sia chiaro che la Winehouse era musicalmente molto dotata, ma non era certo John Lennon. Eppure il gregge di pecorelle ha cercato di farne l’ultima entrata nella hall of fame dei geni incompresi morti da giovani. Esiste infatti una grande differenza tra avere anche uno smisurato talento ed essere un fuoriclasse: la riproducibilità, l’essere autenticamente differente. Nessuno ad esempio era in grado di pensare e scrivere Come together nel ’69, eccetto i Beatles, mentre la nostra Winehouse è stata una semplice meteora gradevole, che – va detto – non ha mai nascosto al pubblico la sua eccentricità e la sua cupio dissolvi.
Non capisco infatti i motivi di questi continui tributi, milioni di persone che riempiono il proprio vuoto (intendo quello proprio, non quello indotto dalla morte della cantate inglese) postano canzoni e tutto il resto, come solerti pecorelle del gregge globale. Vabbè fa niente, meglio di niente, ma basta oggi, tana libera tutti. E magari fateci ascoltare un po’ di Talking Heads.

 

Pisciate e insulti. Cari Pajetta e Nenni

Nelle pagine di cultura di Repubblica del 27 giugno si può leggere qualche estratto del carteggio tra Nenni e Pajetta. I due politici, l’uno socialista e l’altro comunista, pur nelle tante ruvidezze del confronto (negli anni Cinquanta e Sessanta lo scontro tra le due anime della sinistra è senza esclusione di colpi), si telegrafano di frequente comunicandosi verità, amarezze, reciproche critiche. E’ l’Italia forse un po’ bachettona del dopoguerra, in cui i politici erano però scelti tra le migliori teste che il nostro paese potesse offrire, senza se e senza ma. L’intelligenza, il ricco vocabolario, l’educazione ed il garbo sono la norma, e si vedono anche negli scambi polemici, nel mezzo della lotta politica.
Incredibilmente è un altro mondo – ormai dimenticato – rispetto agli insulti e alle tremende volgarità di pensiero che si sono letti nei mesi scorsi tra i politici intercettati, al mediocre italiano infarcito di testa di cazzo e di stronzo, (figlio di) puttana, coglione e via dicendo. Sembra proprio che non ci siano altre parole da dire, che le persone siano mancanti (cioè deficienti) del lessico necessario per sostenere uno scontro, scuotere o attaccare un avversario.
Viviamo momenti caratterizzati da un’incredibile apoteosi di stupidità, come testimoniato recentemente anche pisciatiella versata addosso a Sgarbi dalla Ripa di Meana. Alla fine davvero non ci resta che chiudere la tivvù e leggere Calvino.

La parolaccia non è più un piacere

Ho sempre avuto un buon rapporto con la parolaccia e l’uso di un linguaggio non ortodosso, mentre ho molto meno confidenza con l’insulto, che penso di aver praticato nascostamente solo nei confronti dei troppi insegnanti incapaci ed insensibili che ho avuto nella mia vita di modesto studente.
La parolaccia infatti, se detta raramente ed in un contesto in cui ci si aspetta un approccio formale o serio, può avere un grande effetto espressivo, talvolta deflagrante, se riesce ad attirare l’attenzione di chi legge o ascolta (da Dante in avanti). Ugualmente dicasi per la volgarità linguistica, la quale – per essere efficace – deve essere invece sostenuta da un pensiero raffinato ed inattaccabile.
La volgarità di pensiero è invece la forma più bassa di comunicazione, come ci insegna lo stile politico del nostro Primo Ministro. E’ davvero la classica merda fuori posto che, benché ci si affanni a nascondere a posteriori sotto il tappeto, continua a puzzare e infastidire il naso. La volgarità di pensiero infatti sfocia quasi istantaneamente nell’insulto (“quelli che votano sinistra sono coglioni” oppure “i magistrati sono un cancro”), che è tra i più bassi atti comunicativi. Cosa diversa è invece l’insulto scherzoso, che, soprattutto tra amici, può essere invece una delizia tra raffinati linguisti.
Mi dispiace così che l’uso stupido ed inaccorto di volgarità linguistiche sia stato sdoganato per diventare l’abitudine comunicativa di una classe politica e dei mediocri personaggi della televisione, i quali ahimè hanno abusato di tale strumento espressivo per sostenere il loro vuoto di idee, la loro inaudita volgarità intellettuale. Tra i molti piaceri, Berlusconi ed i suoi sodali, mi hanno tolto anche quello della parolaccia. Cazzo.

San-to-su-bi-to!

Era già scritto sui manuali di storia che Karol Wojtyla – il papa che aveva stretto la mano a Pinochet e si era opposto alla teologia della liberazione, che beatificava gentaglia come il fondatore dell’Opus Dei, che ha continuato a vedere le donne nel solo ruolo mariano – diventasse santo. D’altronde la furbizia dei cardinali è proverbiale: guai a farsi sfuggire di bocca il prezioso boccone mediatico di uno degli uomini più visibili del XX secolo. La gente lo acclamava “santo subito”? Allora accontentiamoli, si sono evidentemente detti i cardinali (che i miracoli li sanno fare più di ogni esperto di comunicazione).
E così vai a servizi zum-pa-pà mamma mia quanto era bravo sulle televisioni di tutto il mondo, sui quotidiani, gallerie fotografiche sui rotocalchi, su internet e tutto il resto fino al merchandising papalino che ha inondato Roma. Con noi italiani, come era fuori discussione, in prima fila con il panem et circenses.
Ho i brividi e sono emozionato. Non so se mi reggono le coronarie tra matrimonio reale e beatificazione. Le bestemmie, per grazia mia, sono invece ben allenate.

God Fuck the Queen

Ho sempre trovato irritante i matrimoni pomposi di amici e conoscenti. Intendo quelli che non sono una festa, ma un rito che vuol dimostrare qualcosa al mondo (come l’ammore eterno, la ricchezza, l’esistenza delle favole). La mia è una concezione forse più intima della cosa, e penso che nella parte pubblica il matrimonio sia un contratto – anche da festeggiare – mentre un sacco di persone ne hanno un’idea sacrale, che rispolvera mitologie e costruzioni antropologiche che fa a pugni ormai con i nostri tempi. Ma ben venga l’aspetto anacronistico, se solo le persone ne fossero consce…
Oggi mi ha fatto incazzare che lo sposalizio di miei due coetanei inglesi possa occupare la prima pagina dei giornali di tutto il mondo. Per farci vedere cosa? La forza della monarchia? Che i sogni, re e regine esistono? Che il Regno Unito è uno stato unito che si rappresenta nella monarchia? Ma andiamo, è una cagata pazzesca. E sono stronzate gli speciali giornalistici dedicati all’evento e tutto il resto. La gente poi che se ne sta per le strade a salutare i due piccioncini che passano: mi farebbero ridere, se non mi venissero i conati di vomito.
Si tratta di evasione da quattro soldi, per poveracci come noi che la merda la mangiano tutti i giorni. Beati coloro che si accontentano sognando principi e principesse.

Sanremo, fecaloma nazionalpop

Non sono aprioristicamente contro gli eventi nazionalpopolari, benché talvolta la voglia di autoescludersi dal vulgus profanus sia irresistibile, anche agli uomini di buona volontà. Anzi, direi che di cose realmente popolari e di qualità ce n’è realmente bisogno, tanto più perché nel nostro paese “popolare” è diventato sinonimo solo di scarsa qualità, soprattutto in ambito televisivo.
Sanremo però continua a farmi venire il vomito. Sanremo è un – prendo la parola medica in prestito da Costantino Della Gherardesca, uno dei guru del pop intelligente – fecaloma che intasa il palinsesto della fecciosissima televione pubblica. E’ un agglomerato escrementizio inestricabile che spero almeno renda economicamente ben più di quanto costi.
Non ho capito infatti perché un tale ca(ro)zzone sempre uguale a sé stesso, sempre fatto di cliché da pensionati infartuati e ragazzini lobotomizzati, occupi elefantiacamente le pagine di cultura&spettacolo dei giornali, della tivvù e delle radio. Sanremo è un accozzaglia di stereotipi da brivido, di sterco venduta come cioccolato, solo perché ha lo stesso colore. Non abbiamo bisogno di altro? Ormai i nani e le ballerine, i mille profumi per coprire le puzze ci hanno nauseato.

A San Valentino pomiciamo al Mart

“Dammi migliaia di baci, poi cento, poi ancora mille e ancora cento”. Scriveva questo Catullo, duemila anni fa, in una delle poesie dedicata alla sua amata, che rimane tra le più sensuali di tutta l’antichità. Un invito a scambiarsi effusioni, fino a perderne il conto. Un po’ quello che ha invitato a fare il Mart oggi (giornata di San Valentino che festeggia gli innamorati) consigliando ai colpiti da Cupido di fare un salto al museo.
Il Mart, proprio per l’occasione, è eccezionalmente aperto (il lunedì solitamente è giorno di chiusura) con un biglietto a basso prezzo pensato apposta per le coppie, regolari o irregolari non importa, mentre per i ménage à trois non viene specificato niente. Ma la cosa carina – anche ruffiana nel suo essere pomiciona se volete, ma pur sempre carina – è l’invito a fotografarsi mentre ci si bacia sotto la cupola di Mario Botta e successivamente inviare la foto al Mart. Le foto più belle (sarebbe curioso capire se in basi ai dettagli tecnici del bacio o all’aspetto estetico della foto, alla bellezza dei partner, ecc.) saranno pubblicate sul sito del museo e la miglior coppia riceverà in omaggio il catalogo della mostra di Modigliani.
Mi è sembrato un modo carino, ed esibizionista quanto è giusto al tempo dei social network, per entrare al museo. Anzi, quasi quasi vale la pena di suggerire al Mart di aprire un Flickr con le foto dei visitatori che si baciano davanti alle opere del museo (infischaindosene di diritti e tutto il resto). A divertirsi non ci sarebbero solo le scolaresche.