Autore: Daniele Capra

I curatori? Guardano più il portfolio che le opere

In un paio di commenti sulla vicenda di Alterazioni Video al ravennate Mar (spesso, come segnalato in un articolo di Christian Caliandro, sono proprio i commenti una delle cose più interessanti), si citava della prassi di alcuni curatori di guardare e giudicare le opere solo dai portfolio degli artisti. Molti curatori – questo il succo – lavorano con artisti dei quali non hanno visto le opere ma solo la loro presentazione, la loro immagine, senza cioè uno degli aspetti più interessanti e centrali quale è la visita in studio.
Fare uno studio visit – è un’opinione del tutto personale – è una delle cose più interessanti ed eccitanti del mestiere. Vedere il luogo e l’ordine/disordine, sentire il sudore, guardare l’approccio al lavoro, la scelta delle dimensioni, degli strumenti, la fisicità o la leggerezza delle modalità di lavoro, sono tutti strumenti di comprensione ineludibili per chiunque voglia capire come pensa e agisce un artista. Ovviamente non per tutti è così, poiché molto spesso capita di incontrare giovani artisti concettuali che hanno più disegni ed idee sul computer che opere.
Se il curatore lavora a distanza (a vicinanza telematica, per dire il vero) a mio avviso prediligerà frequentemente opere che funzionino senza fisicità, per le quali la visione retinica non è così importante, ma – al contrario – la logica ed il pensiero hanno la forza maggiore. Ci sono infatti opere che funzionano per idee ed opere che funzionano se c’è qualcuno che le guarda dal vero, in forma consapevole.
Vuoi vedere che è per questo aspetto di distanza che i pigri curatori italiani snobbano lavori che debbono essere visti (come spesso capita con la pittura) a favore di altri che possono essere capiti e raccontati in forma scritta, di immagine riprodotta, e di idea trasmissibile e raccontabile?

Murakami a Versailles. Dove sta lo scandalo?

In un articolo drastico uscito su Le Monde e ripreso dal Giornale del’Arte, Marc Fumaroli (autore del celebre Lo Stato culturale. Una religione moderna, Adelphi, 1993) critica senza riserve la mostra di Takashi Murakami ospitata nelle sale di Versailles, spiegando come sia l’Italia che la Francia giudichino il patrimonio culturale come di un giacimento da utilizzare secondo le mode e con gusto discutibile, quasi fosse una materia prima. In particolare, secondo l’accademico di Francia, la mostra di Murakami trasforma in Disneyland una delle sedi più conosciute dello stato francese sfalsando completamente l’idea del luogo, le sue finalità e ciò che artisticamente rappresenta. “Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami dei quali ci si vorrebbe far credere che il loro Kitsch, trasferito a Versailles, dialoga con la pompa magna di Le Brun, Le Notre o Lemoyne? Non si tratta forse di fuorviare quello stesso pubblico che lo Stato avrebbe invece il compito di illuminare e istruire?”, scrive Fumaroli, avendo forse un po’ di ragione se si considera che la mostra di Murakami nasce in parte come un format e non come un progetto sviluppato per Versailles.
Ma alla fine Fumaroli dà il peggio di sé, spiegando che “l’arte cosiddetta contemporanea, che si ammanta di uno status completamente inventato per un mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune, né con tutto ciò che fino a oggi è stato definito arte, né con i veri artisti viventi”. Sembra infatti che per il vecchio professore francese l’arte contemporanea sia esclusivamente finanza, speculazione e mercato, non rendendosi conto che – oltre ai soliti fenomeni gagosiani da banca – esistono decine di altri bravi artisti che hanno concetti e linguaggio per dire, fare, sorprendere tanto più in un luogo stratificato dalla storia.
La sua è infatti una lettura superficiale, da chi guarda le aste e non ha studiato i contenuti. Non si accorge Fumaroli che il problema non è l’arte contemporanea in sé quanto il fatto che le istituzioni debbano proporre un programma culturale contemporaneo di livello?
E suvvia, svecchiamo questi luoghi e divertiamoci con Murakami, il quale – piaccia o non piaccia – è un artista e non un produttore di “giocattoli giapponesi”. E quanto meno ci si annoierà di meno in quel museo da letargia, sfarzo ed inutil pompa per la nobiltà annoiata di secoli fa, quale è la residenza della corte francese.

Regionalismo a go go. Il catalogo è anche in friulano

Stavo riordinando i cataloghi degli ultimi mesi e mi sono trovato tra le mani la curatissima pubblicazione che ha corredato la personale di Sergio Scabar presso l’Ospedale dei Battuti di San Vito al Tagliamento (potete leggere qui la recensione). Oltre ai lavori dell’artista e al testo del curatore Angelo Bertani, il catalogo contiene degli estratti de La vita delle cose di Remo Bodei, particolarmente interessanti se consideriamo la ricerca “morandiana” sugli oggetti condotta da Scabar.
Ma quello che mi ha colpito è stato che il catalogo è anche in friulano. Sì, in friulano. Per la precisione è trilingue ed i testi sono in quest’ordine: friulano, inglese, italiano. Mi pare incredibile.
Trovo imbarazzante che siano stati spesi dei soldi cioè per tradurre i testi in questa lingua – guai a chiamarlo dialetto, vi attirereste le ire degli oltranzisti. Dubito infatti che il curatore e Bodei scrivino in friulano.
Così, mentre mancano i quattrini per l’arte, se ne sprecano considerando il furlan lingua da conservare approfittando dei contributi che la regione autonoma concede per la difesa del patrimonio linguistico (una cosa da ridere). Quei soldi li avrei preferiti per dare un’occasione, qualcosa in più. Magari per far migliorare l’inglese agli artisti della regione.

Il crollo di Pompei e il buio sulla cultura

Il crollo di Pompei è la metafora più adatta per rappresentare il nostro paese. Ne è cioè il ritratto più veritiero, non solo per il crollo in sé, ma per la continua incuria verso ciò che è di tutti, per l’incapacità di programmare qualsiasi cosa, di portare avanti qualsiasi politica culturale.
E’ nel contempo la dimostrazione del fallimento di molti di quelli che hanno fatto cultura, che realmente non sono riusciti ad incidere sulla storia recente dell’Italia, nazione ormai piegata ad essere lo zoo d’Europa. E’ inultuile che si facciano liste e si usi retorica per parlare di cultura, come hanno fatto Fazio, Saviano e pure un grande come Abbado, recentemente per televisione su Rai3.
Bisogna cambiare il passo, shakerare e capovolgere sta nazione. Federculture lancia un  grido d’allarme (lo trovate qui sempre meglio di niente), ma sarà come svuotare il mare con un secchio… 

Pittura, brutta figlia di p.

Pregiudizi di ogni tipo sono quelli che molta della critica progressista e à la page del nostro paese ha nei confronti della pittura. La cosa si vede, oltre che nelle mostre in molti negli spazi pubblici, dalla costante assenza del medium nelle gallerie considerate portatrici della ricerca più innovativa, di quelle più ambite e snob.
Non so perché, ma sembra che la pittura sia una pratica da sfigati che appartengono ad un’altra epoca, dei pezzi di antiquario postmoderno (anche io, nel mio piccolo, quando mi sono trovato a curare mostre con pittori ho ricevuto bonari e sarcastici apprezzamenti da colleghi o da altri artisti). E inoltre, se curiosamente la pittura degli artisti italiani è snobbata, capita invece di vedere come gli stessi critici guardino con occhio meno critico pittori inglesi o tedeschi: d’altronde si sa, noi siamo esterofili.
Fa specie così vedere molta della critica e del mondo dell’arte che non sostiene affatto la pittura radunati ad un tavola a discuterne al Docva a Milano (ecco la segnalazione dell’evento). L’idea che me ne sono fatto – ma probabilmente sbaglierò – è che  quelle persone tenteranno di fare l’autopsia di un morto che hanno contribuito ad uccidere, spiegando come in realtà non sia loro responsabilità. Ovviamente non sarebbero mancate persone più adeguate, ma il mondo dei figaccioni internescional è terribilmente autoreferenziale.
Il problema è che sono troppo pochi ad occuparsi di pittura di valore in Italia. Con il risultato di lasciare il campo libero a dei furbacchioni come Luca Beatrice o degli incompetenti di contemporaneo come Sgarbi. Siamo messi davvero bene.

Se tutte le opere sono un “capolavoro”

Sconcertante è la leggerezza con cui i quotidiani italiani trattano di arte contemporanea, usando parole a sproposito, al di fuori di qualsiasi logica di buon senso. Questa volta èRepubblica.it a sorprenderci, nella classica colonnina cazzabubbole della homepage sulla sinistra, il refugium peccatorum dell’utente in cerca di distrazione (spazio in cui tra l’altro mi è capitato di vedere artisti sconosciuti al grande pubblico ma di sicuro interesse come Chris Gilmour). Qui ieri campeggiava un link dal titolo, molto promettente, “il capolavoro lavato via”. Non riesco a capire di cosa si tratta, immagino un’istallazione di John Bock pulita con la candeggina o Ausfegen di Joseph Beuys passato con il bidone aspiratutto. A quel punto, incuriosito, clicco. Ed è subito sera.
Mi imbatto in un’“opera” orripilante di Umberto Vaschetto, costituita da una immagine di donna dalla quale ciondola un feto di plastica che gronda sangue (!), un evidente lavoro antiabortista. Ma la notizia incredibilmente interessante segnalata dal sito è questa: l’addetta alle pulizie ha pulito le macchie rosse a terra.
Sono sconcertato, non tanto per il livello infimo dell’opera (di opere brutte se ne vedono molte), ma perché il titolo “capolavoro lavato via” fa venire i brividi. Si sa, i titolisti amano speziare le cose, tanto più in un’epoca di infotainment e notizie spazzatura come la nostra. Ma l’uso della parola “capolavoro” per quell’opera è indigeribile, un vero colpo inaspettato sul pube anche del più rincoglionito e amorfo dei lettori (se fate caso, tra l’altro, quando si parla di arte sui quotidiani la parola “capolavoro” è come il prezzemolo). Se ci penso, mi duole ancora il basso ventre.

Birnbaum fa il buyer a Frieze

Lorna Simpson, Jimmie Durham e Julius Koller. Sono questi gli acquisti che Daniel Birnbaum ha fatto per la Tate Gallery a Frieze, grazie al fondo messo a disposizione dalla fiera e da alcuni sponsor. Niente di giovanile o di inaspettato, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dall’intervista che ha rilasciato per The Art Newspaper (la vedete qui), in cui ha spiegato l’eccitazione ed il piacere di occuparsi della collezione di una istituzione trattando direttamente con i galleristi. La Simpson e Durham sono ormai dei pezzi da museo, quasi storicizzati, mentre Koller è uno di quegli artisti concettuali dell’Est Europa che i critici d’avanguardia stanno riscoprendo negli ultimi quattro-cinque anni, come ad esempio è capitato con il grande Jiri Kovanda: insomma è à la page, ma si compra abbastanza bene poiché i collezionisti ancora non ci hanno messo troppo gli occhi (che strano destino, la storiografia conta tantissimo, ma in arte è possibile correggersi dato che le opere non necessariamente spariscono).
E comunque, se Durham è sempre il solito tran tran, gli altri due sono due bei pezzi. Chapeau Herr Birnbaum. Ma un giovane no?

La cultura, il pane, Tremonti e la sorella di

Povero Giulio Tremonti. Ho molta pena per lui. Non gli è bastato avere l’erre moscia da primo della classe, la boccuccia da saputello e la proverbiale capacità di previsione sull’andamento dell’economia di cui ci ha dato esempio superlativo Corrado Guzzanti (se non avete mai visto guardate qui). Pensate che sfiga. Lui che avrebbe sposato la fancazzistica dottrina del laissez faire, laissez passer si è trovato ad agire con la scure per tagliare gli sprechi e i condoni per il recupero di qualche euro furbetto (guai a toccare Sant’Evasore). Per colpa dell’Europa urgono politiche di rigore e non è colpa sua se lo stato italiano sguazza nel guano ed ormai non ci sono più quattrini. Mancano i soldi per tutto, i lavori pubblici, la riforma dell’università, le pensioni, la cultura, come avevano annunciato le Cassandre di sinistra, che evidentemente portano tanta di quella sfiga che nemmeno Nostradamus avrebbe mai immaginato.
E comunque con la cultura non si mangia, non è certo come il pane, tanto più in un paese di ignoranti come il nostro. E chi se ne frega dei nostri vecchissimi beni culturali, visto che – se non ci fosse ‘sta mentalità statalista ed immobilista – potremmo cartolizzarli o venderli ai cinesi! E l’arte contemporanea? Tremonti la sta appoggiando come si deve, almeno da quanto si vede dalle opere della sorella Angiola esposte alla Villa Reale di Milano.
Giulio, sei il mio mito.