Autore: Daniele Capra

Artisti, evitate i curatori sputtanati

Ho ricevuto varie osservazioni (e numerose proposte di coinvolgimento) dopo il post di settimana scorsa in cui mi interrogavo sulle ragioni per cui un artista possa rifiutare una mostra personale interamente prodotta da una galleria, tanto più in una città che è una vetrina del contemporaneo come Berlino. Qualche amico artista mi ha spiegato come, a suo avviso, ci si metta pochissimo a fare brutta figura dopo aver partecipato a mostre in gallerie sconosciute o con curatori non di primo livello. Se accetti di lavorare con certa gente devi anche abituarti al pubblico che si porta dietro, non basta che il progetto sia interessante: questo in sintesi il ragionamento. Quindi molta attenzione alle compagnie.
Un’amica in chat mi ha raccontato di aver rifiutato una mostra in uno spazio pubblico del nord Italia perché invece il curatore – ormai navigato – era parecchio sputtanato e troppo politico. “Che ci faccio con gente che ha leccato il didietro a Bondi e ha trasformato in commercio tutto quello che ha toccato?”. Meglio dire no, come hanno fatto lei e molti artisti della scena torinese.
Forse insomma è meglio semplicemente non far comparire il proprio accanto a quello di persone che non si stimano. Ma alla fine non rischia di fare come l’incauto marito che si evira per dispiacere alla moglie?

Rifiutare una mostra

Nelle scorse settimane mi hanno proposto di curare una mostra a Berlino di uno dei giovani artisti italiani internazionalmente più promettenti. Praticamente una mostra personale in uno spazio appena aperto, interamente prodotta dalla galleria. Il luogo è in una posizione centrale della capitale tedesca, ma ovviamente – avendo solo qualche mese alle spalle – non poteva garantire un’ottima visibilità, sebbene l’impegno di tutti i soggetti coinvolti sarebbe stato massimo.
Trovavo il progetto eccitante perché avrebbe permesso una grande libertà d’azione sia all’artista che a me, benché non sarebbero mancate delle zone di rischio, sopratutto sulla sua visibilità. Ma l’ebrezza della libertà di ricerca talvolta è la moneta più appagante, e poi penso che giocandosela bene ogni proposta possa diventare un’opportunità.
Alla fine l’artista ha rifiutato, forse appunto perché lo spazio è troppo giovane e troppo sconosciuto, o il mio nome non è una garanzia di risultato. E’ una scelta che posso capire, dato che una carriera è una lunga corsa a tappe in cui bisogna saper non sbagliare, né affaticarsi o affidarsi a persone sbagliate. E poi è necessario pedalare per chilometri senza perdere di lucidità.
Mi dispiace però che un trentenne non abbia voluto buttarsi come un leone. Molto più spesso che non si dica l’entusiasmo e l’energia, anche in questo mondo complesso e un po’ stronzetto come l’arte contemporanea, pagano.

Sanremo, fecaloma nazionalpop

Non sono aprioristicamente contro gli eventi nazionalpopolari, benché talvolta la voglia di autoescludersi dal vulgus profanus sia irresistibile, anche agli uomini di buona volontà. Anzi, direi che di cose realmente popolari e di qualità ce n’è realmente bisogno, tanto più perché nel nostro paese “popolare” è diventato sinonimo solo di scarsa qualità, soprattutto in ambito televisivo.
Sanremo però continua a farmi venire il vomito. Sanremo è un – prendo la parola medica in prestito da Costantino Della Gherardesca, uno dei guru del pop intelligente – fecaloma che intasa il palinsesto della fecciosissima televione pubblica. E’ un agglomerato escrementizio inestricabile che spero almeno renda economicamente ben più di quanto costi.
Non ho capito infatti perché un tale ca(ro)zzone sempre uguale a sé stesso, sempre fatto di cliché da pensionati infartuati e ragazzini lobotomizzati, occupi elefantiacamente le pagine di cultura&spettacolo dei giornali, della tivvù e delle radio. Sanremo è un accozzaglia di stereotipi da brivido, di sterco venduta come cioccolato, solo perché ha lo stesso colore. Non abbiamo bisogno di altro? Ormai i nani e le ballerine, i mille profumi per coprire le puzze ci hanno nauseato.

A San Valentino pomiciamo al Mart

“Dammi migliaia di baci, poi cento, poi ancora mille e ancora cento”. Scriveva questo Catullo, duemila anni fa, in una delle poesie dedicata alla sua amata, che rimane tra le più sensuali di tutta l’antichità. Un invito a scambiarsi effusioni, fino a perderne il conto. Un po’ quello che ha invitato a fare il Mart oggi (giornata di San Valentino che festeggia gli innamorati) consigliando ai colpiti da Cupido di fare un salto al museo.
Il Mart, proprio per l’occasione, è eccezionalmente aperto (il lunedì solitamente è giorno di chiusura) con un biglietto a basso prezzo pensato apposta per le coppie, regolari o irregolari non importa, mentre per i ménage à trois non viene specificato niente. Ma la cosa carina – anche ruffiana nel suo essere pomiciona se volete, ma pur sempre carina – è l’invito a fotografarsi mentre ci si bacia sotto la cupola di Mario Botta e successivamente inviare la foto al Mart. Le foto più belle (sarebbe curioso capire se in basi ai dettagli tecnici del bacio o all’aspetto estetico della foto, alla bellezza dei partner, ecc.) saranno pubblicate sul sito del museo e la miglior coppia riceverà in omaggio il catalogo della mostra di Modigliani.
Mi è sembrato un modo carino, ed esibizionista quanto è giusto al tempo dei social network, per entrare al museo. Anzi, quasi quasi vale la pena di suggerire al Mart di aprire un Flickr con le foto dei visitatori che si baciano davanti alle opere del museo (infischaindosene di diritti e tutto il resto). A divertirsi non ci sarebbero solo le scolaresche.

La cultura ed uno sfogo leghista

Non sono mai stato della Lega e mi sono sempre tenuto lontano da ogni ismo che il movimento del Senatùr & Co. hanno sostenuto in tanti anni di celodurismo, bandiere italiane “da appendere al cesso” e tutti i discorsi da circo che sono stati fatti. Ma pure qualche problema intelligente questa forza politica l’ha posto (spesso dandovi risposte sbagliate o non all’altezza). E uno di questi è quanto conti realmente il Nord sul piano nazionale, dato che – per le inefficienze del sistema politico, informativo e culturale – per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione nazionale.
Pensavo questo mentre stavo ascoltando Ventotto minuti su Radio 2, l’insopportabile trasmissione di Barbara Palombelli, esempio della borghesia liberal all’acqua di rose (“de sinistra”), che invitava gli ascoltatori ad andare ad una presentazione di un libro presso l’ennesimo palazzo romano del centro. Ho avuto un attacco di vomito e ho mandato sinceramente a fare in culo lei e chi fa il palinsesto radiofonico.
Non si riesce infatti ancora a rompere questa logica incredibile per cui ciò che capita a Roma o a Milano capita all’Italia intera, anche culturalmente. Nessuno si è accorto che ad esempio il Nordest ha smesso di essere periferia attivando dei processi culturali avanzati (con case editrici, festival, design, gallerie, ecc.) nonostante l’epopea dei mille cornuti – celtici – della Lega, nonostante il sindaco Sceriffo che suggerisce di sparare agli immigrati travestendoli da leprotti, nonostante la simpatia di Brunetta o le puttane di Arcore?

Se si spegne un Neon luminosissimo

Il week end di Artefiera sono stato alla vernice dell’ultima mostra alla Neon. La galleria non ha bisogno di presentazioni, essendo stata per trent’anni uno dei posti più in vista e più di ricerca del nord Italia. Impossibile riportare tutti gli artisti, i curatori e gli intellettuali che sono passati nelle mostre e negli incontri dello spazio non-profit bolognese, ma lo spazio è da sempre stato considerato uno dei più liberi dagli schemi (benché più di qualcuno lo abbia invece paragonato ad una Asl per giovani artisti). Negli ultimi anni forse – va detto – la programmazione ha forse risentito di una certa prevedibilità, una certa stanchezza, ma è normale che ciò capiti.
Ho avvertito così una certa malinconia quel sabato, all’affollata apertura della collettiva Difetto come indizio del desiderio, curata da Andrea Bruciati, cui hanno partecipato alcuni dei più interessanti artisti che usano la pittura attivi nel nostro Paese. Non so cosa fosse, ma la mostra, molto azzeccata per l’allestimento delle opere a quadreria sulla parete di fondo (alla Pannini), mi è sembrata davvero il canto del cigno. Un po’ perché di pittura alla Neon se n’è vista poca e quindi rappresenta un unicum, un po’ perché la consapevolezza della fine toglie l’orgasmo della festa.
Non rimane che sperare che qualcuno ne raccolga l’eredità e che quel neon luminoso venga presto riacceso.

Mario Airò in scala 1:50

Qualche mese fa ho visto l’opera di Mario Airò Atlantide alla mostra d’apertura del progetto Terre vulnerabili (un vero e proprio ciclo espositivo in progress con quattro appuntamenti), ospitato all’Hangar Bicocca. E’ una macchina di metallo – che ricorda gli utensili delle officine meccaniche – che di tanto in tanto lascia cadere un asta metallica producendo un rumore secco. La si sente da lontano, nella sede della mostra, e sotto le alte volte dei capannoni il rumore prodotto è quello di un tonfo che rimbomba in forma sacrale. Quando ci si avvicina si scopre che quando l’asta percuote terra accende un dispositivo che produce un’infiorescenza luminosa, una sorta di disegno floreale, realizzato con il laser verde. Un’opera molto bella, che non è concettualmente fredda e la cui forza è quella saper giocare e di concedere una gratificazione visiva all’attesa dello spettatore. Perfetta per il luogo, chapeau.
Sono rimasto esterefatto invece quando ho visto il modellino della stessa opera ad Artefiera, presso la Galleria Nicoletta Rusconi, realizzato in scala come le macchinine Bburago. Ho chiacchierato un po’ con la gallerista e ne ho dedotto – ma forse mi sbaglio – che non si trattava di una maquette preparatoria bensì di un modello realizzato ex post. La scultura originale è di grandi dimensioni e difficilmente vendibile, il modellino invece sta in salotto: questo era il ragionamento. E poi la magnifica opera esposta all’Hangar costa sugli 80mila, il modellino solo 12. Insomma era un vero affare.
Peccato che il modellino non abbia niente a che vedere con l’intensità della versione originale di Atlantide. Anzi, se non fosse un modello preparatorio, come disegni e progetti (che ragionevolmente rappresentano il processo creativo che ha originato l’opera), farebbe proprio tristezza.

Speranze ad Artefiera

Si è chiusa oggi Artefiera, il primo appuntamento dell’anno delle gallerie italiane con il mercato. Come è normale in occasioni simili, ho incontrato molti galleristi abbastanza felici, qualcuno addirittura raggiante; altri invece era delusi. E’ sempre difficile capire come è andata nel suo complesso, ma la sensazione che ho avuto è che paiono esserci prospettive positive e c’è la speranze che i collezionisti tornino ad essere disposti a spendere. Speriamo che la rondine faccia proprio primavera.
Questa edizione si è caratterizzata da un certo rinnovamento del parterre delle gallerie, con qualche evidente assenza dei big milanesi e torinesi, che evidentemente non credono più al sistema italiano (ricordo che il solito prevedibile Politi, in un’intervista di qualche anno fa alla Rai, suggeriva ai collezionisti di non andare ad Artefiera ma di spendersi gli stessi soldi da Prada o da Armani ed andare a farsi un giro altrove) oppure preferiscono andare ad Artissima  che è più internescional.
La parte che mi è piaciuta della fiera è stata quella delle nuove gallerie (soprattutto Mario Mazzoli, Apart, SpazioA, Deanesi, Pantaleone), davvero fresca e stimolante, con punte interessanti negli altri padiglioni con Perugi, LipanjePuntin e Jonathan Levine. Inboccallupo a tutti.