Autore: Daniele Capra

Sgarbiennale Discothèque

Ora mi è chiaro perfettamente. Il Padiglione Italia è una discoteca labirinto. Bianca, senza luci colorate, grande un centinaio di chilometri. E dalla quale non si può uscire. C’è un signore sulla porta, si chiama Vittorio, e non fa selezione all’ingresso. Bisogna solo fare la coda e non indossare le scarpe da ginnastica. Se ci si presenta con tanto di amica erotomane predisposta al meretricio, e magari con ghiandole mammarie elefantiache, si entra anche prima.
Adesso alle persone piace molto questa discoteca, perché c’è il pieno nelle sale, e Mino Reitano e Peppino Di Capri sono finalmente diventati i maître à penser del gusto contemporaneo e finalmente si può ruttare dopo un bicchiere di havana-cola e un walzer zumpapà. Una volta invece c’era gente noiosa e spocchiosa che obbligava ad ascoltare i dischi di Paolo Conte o Battiato in sette ottavi, tempi bulgari comunisti che non si possono ballare se non si era ballerini alla Scala e non si votava pici-ì.
E poi, se la gente non ballava e non sudava, si beveva poco e i gestori della discoteca non erano felici, mentre adesso tutti bevono perché c’è caldo poiché c’è l’effetto bue & asinello che piace anche ai preti. Ora la discoteca è di tutti e ha vinto il popolo. W la democrazia, il popolo trionfa sempre!

MacroPasticcio


Evviva. La giunta comunale alemanna è riuscita nell’intento di far dimettere il direttore del Macro. Chiariamoci, non è certo solo responsabilità del sindaco, ma pure molti dei casini sono da imputarsi alla gentaglia (assessoretti, amichetti di partito, arrivisti della tornata elettorale, ma anche gente come Umberto Broccoli che si sente legibus solutus) dalla quale esso stesso si è fatto circondare.
Di certo Roma, dopo tanti anni di chiacchiere, ha goduto di un paio d’anni di grande fermento, dovuti al vulcanico direttore – e alle sue truppe – che non hanno esitato di proporre alla città un modello di museo sempre aperto, con continue inaugurazioni (molte delle quali grazie al contributo delle gallerie) e tanta gente che gira. Un luogo cioè ben lontano da quello che effettivamente è un museo di arte contemporanea nel nostro Paese (con la speranza che il nuovo direttore non rinunci a questo approccio).
Alla fine le dimissioni sono dovute alla mancanza di certezze economiche e modelli di governance per l’istituzione. Non si può lavorare in questo modo, e non sarebbe serio – deve aver pensato Barbero, a ragione, dato che maggio ancora non era chiaro il budget che il comune gli riservava. Non ci resta di sperare che qualcosa cambi nella capitale, che arrivi un nuovo direttore pronto ancora a dare la sveglia ai romani, ma anche a tirare per la giacchetta fondazioni, banche & co.

Il cielo (e la mostra) sopra Berlino

Ich bin ein Berliner. Lo posso dire anch’io finalmente. Si inaugura infatti sta sera la prima mostra che mi capita di curare nella città del muro. Inutile che dica quanto sia entusiasta della cosa. Berlino per me è un simbolo, un’icona di libertà, di stile alternativo, di città di cultura che ha orecchie e presta attenzione al contemporaneo.
La personale Unexpected Machines di Roberto Pugliese alla Galleria Mario Mazzoli è davvero una bella mostra. Intensa e tagliente come si dovrebbe, supersperimentale e poetica. Sono felice poi che, per una volta non sono io ad andare ad un vernissage berlinese, ma che sia la montagna ad andare da Maometto.

La parolaccia non è più un piacere

Ho sempre avuto un buon rapporto con la parolaccia e l’uso di un linguaggio non ortodosso, mentre ho molto meno confidenza con l’insulto, che penso di aver praticato nascostamente solo nei confronti dei troppi insegnanti incapaci ed insensibili che ho avuto nella mia vita di modesto studente.
La parolaccia infatti, se detta raramente ed in un contesto in cui ci si aspetta un approccio formale o serio, può avere un grande effetto espressivo, talvolta deflagrante, se riesce ad attirare l’attenzione di chi legge o ascolta (da Dante in avanti). Ugualmente dicasi per la volgarità linguistica, la quale – per essere efficace – deve essere invece sostenuta da un pensiero raffinato ed inattaccabile.
La volgarità di pensiero è invece la forma più bassa di comunicazione, come ci insegna lo stile politico del nostro Primo Ministro. E’ davvero la classica merda fuori posto che, benché ci si affanni a nascondere a posteriori sotto il tappeto, continua a puzzare e infastidire il naso. La volgarità di pensiero infatti sfocia quasi istantaneamente nell’insulto (“quelli che votano sinistra sono coglioni” oppure “i magistrati sono un cancro”), che è tra i più bassi atti comunicativi. Cosa diversa è invece l’insulto scherzoso, che, soprattutto tra amici, può essere invece una delizia tra raffinati linguisti.
Mi dispiace così che l’uso stupido ed inaccorto di volgarità linguistiche sia stato sdoganato per diventare l’abitudine comunicativa di una classe politica e dei mediocri personaggi della televisione, i quali ahimè hanno abusato di tale strumento espressivo per sostenere il loro vuoto di idee, la loro inaudita volgarità intellettuale. Tra i molti piaceri, Berlusconi ed i suoi sodali, mi hanno tolto anche quello della parolaccia. Cazzo.

Ho fatto ridere Gilbert and George


Lo confesso, come buffone me la cavo bene, anche nelle situazioni più formali ed inaspettate. Ma deve essere evidentemente la mia natura di guitto parlatore – per altro continuamente allenata – che ho ereditato per via famigliare dalle mie amate nonne.
Qualche settimana fa mi è capitato di essere a Berlino, presso la Galleria Arndt, in occasione della vernice di The Urethra Postcad Art, mostra che raccoglie tutta le serie di cartoline postali del duo britannico. La situazione era un po’ formale, con un pubblico non proprio da squatter, come spesso capita di vedere nella capitale tedesca. In occasione dell’antologica è stato pubblicato un catalogo corposo (a dire il vero un tomo noiosissimo che consiglio solo a chi voglia sfoggiarne il dorso sullo scaffale della libreria) e i due artisti si sono prestati al rito del book signing, mentre i camerieri distribuivano sandwich con cetriolo e salsine british.
Ho approfittato per fare delle foto e poi ho stretto loro le mani. In realtà non si aspettavano di essere toccati e ho avuto la sensazione che la cosa li mettesse un po’ in imbarazzo. Ma oltre alle frasi di rito non sono riuscito a trattenere la battuta. “You were the first singing sculpture years ago, now you’re the first signing sculpture!”.
Non so se sono stato il centesimo stupido a fare la battuta (probabile) oppure il primo che si è permesso. Fatto sta che hanno riso di gusto. Che faccia curriculum?

Biennale. Artisti, rifiutate il nulla…

Continuo a ricevere richieste di consigli da parte di amici artisti incerti e disperati che sono stati invitati alla Biennale di Venezia all’ultimo minuto. Padiglioni regionali, Arsenale, Padiglioni delle Accademie, le opzioni sono diverse e non sempre chiare. Anzi, c’è chi è stato invitato da parte di regioni in cui non lavora né abita. Altri che, pur avendo declinato, si sono trovati nelle pue provvisorie liste presentate alla stampa.
La situazione è decisamente un ginepraio, un moloch incredibile in cui nemmeno gli organizzatori capiscono più qualcosa. Così al telefono capita che abbiano perfino chiesto all’artista con quale regione preferisse partecipare. Va bene pure la Kamchatka.
Grazie Sgarbi, grazie Bondi. Questa è la merda che noi italiani ci meritiamo.

San-to-su-bi-to!

Era già scritto sui manuali di storia che Karol Wojtyla – il papa che aveva stretto la mano a Pinochet e si era opposto alla teologia della liberazione, che beatificava gentaglia come il fondatore dell’Opus Dei, che ha continuato a vedere le donne nel solo ruolo mariano – diventasse santo. D’altronde la furbizia dei cardinali è proverbiale: guai a farsi sfuggire di bocca il prezioso boccone mediatico di uno degli uomini più visibili del XX secolo. La gente lo acclamava “santo subito”? Allora accontentiamoli, si sono evidentemente detti i cardinali (che i miracoli li sanno fare più di ogni esperto di comunicazione).
E così vai a servizi zum-pa-pà mamma mia quanto era bravo sulle televisioni di tutto il mondo, sui quotidiani, gallerie fotografiche sui rotocalchi, su internet e tutto il resto fino al merchandising papalino che ha inondato Roma. Con noi italiani, come era fuori discussione, in prima fila con il panem et circenses.
Ho i brividi e sono emozionato. Non so se mi reggono le coronarie tra matrimonio reale e beatificazione. Le bestemmie, per grazia mia, sono invece ben allenate.

God Fuck the Queen

Ho sempre trovato irritante i matrimoni pomposi di amici e conoscenti. Intendo quelli che non sono una festa, ma un rito che vuol dimostrare qualcosa al mondo (come l’ammore eterno, la ricchezza, l’esistenza delle favole). La mia è una concezione forse più intima della cosa, e penso che nella parte pubblica il matrimonio sia un contratto – anche da festeggiare – mentre un sacco di persone ne hanno un’idea sacrale, che rispolvera mitologie e costruzioni antropologiche che fa a pugni ormai con i nostri tempi. Ma ben venga l’aspetto anacronistico, se solo le persone ne fossero consce…
Oggi mi ha fatto incazzare che lo sposalizio di miei due coetanei inglesi possa occupare la prima pagina dei giornali di tutto il mondo. Per farci vedere cosa? La forza della monarchia? Che i sogni, re e regine esistono? Che il Regno Unito è uno stato unito che si rappresenta nella monarchia? Ma andiamo, è una cagata pazzesca. E sono stronzate gli speciali giornalistici dedicati all’evento e tutto il resto. La gente poi che se ne sta per le strade a salutare i due piccioncini che passano: mi farebbero ridere, se non mi venissero i conati di vomito.
Si tratta di evasione da quattro soldi, per poveracci come noi che la merda la mangiano tutti i giorni. Beati coloro che si accontentano sognando principi e principesse.