Quando l’artista la sa lunga

Sempre mi chiedo quanto l’artista debba essere consapevole del proprio lavoro. Cioè se debba esserlo fin nei particolari (idealmente conoscendo da dove viene, ma soprattutto dove sta andando) oppure se non sia strettamente necessario, dato che spetta ad altri il compito di inquadrare e fornire delle strade interpretative per le opere che realizza. Chi vorrebbe un artista ragionere di se stesso? E poi, al contrario delle parole che tante volte hanno l’ambizione dell’univocità, penso che molte opere – nello spazio della ragionevolezza – siano necessariamente polisemiche. Penso che l’opera viva in forma polimorfica rispetto alle chiavi di lettura ammissibili.
Eppure mi pare di prediligere coloro che lavorano esercitando una ragionevole consapevolezza. Un paio di settimane fa Trieste Contemporanea ha organizzato un dialogo tra Driant Zeneli, vincitore dell’edizione 2009 dell’omonimo premio (che ho avuto la fortuna di curare), e Adrian Paci. Il talk, condotto da Julia Trolp, ha sviscerato alcune delle modalità con cui i due artisti albanesi – uno emergente, l’altro già affermato – costruiscono le opere. Era tutto limpido, cartesiano, cristallino, ma senza che ciò togliesse valore alla poesia e all’imprevisto che ogni costruzione estetica lascia alla fantasia di chi guarda.
Dubito però che questa sia l’unica condizione ammissibile. Continuiamo a ragionarci su.

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