Lynn Carver
Fili
Castelfranco Veneto, Antiruggine
dicembre 2008 ― febbraio 2009
Tessuti e fili (in)visibili
Daniele Capra
È una ricerca artistica silenziosa e solitaria quella condotta da Lynn Carver nella sua dimora nei colli che circondano Asolo. Un’attività sotto traccia, lontana dall’invadenza dei flussi che nelle città creano e rapidamente dissipano mode ed energie, e consumano vorticosamente relazioni, legami, persone. Un lavoro estenuante che si serve di taglio e cucito, orgogliosamente svolto in prima persona, per costruire mappe geografiche, comporre ritratti, scrivere con il filo pagine di giornali o guide telefoniche. Pare quasi non vi sia posto per altro, o che tutto il resto –probabilmente– abbia scelto di manifestarsi nella forma magica del lavoro femminile svolto con l’ago. Alla velocità, alla competizione, alla volontà di affermazione cui la frenesia quotidiana sembra renderci schiavi, l’artista americana seraficamente contrappone un approccio ponderato, metodico, lento, caratterizzato da una forte componente meditativa e processuale.
Le numerose ore di lavoro passate a progettare i lay-out, a realizzare in solitudine le infinite operazioni di cucitura di lavori talvolta di grandi dimensioni, testimoniano una sensibilità fortemente vocata alla pratica orientale dello zen, nonché un calibratissimo controllo emozionale, in grado cioè di gestire le complesse dinamiche temporali che intercorrono tra progetto e realizzazione compiuta. Gli unici compagni di viaggio sono la radio ed il sonnacchioso miagolio della vecchia macchina da cucire a pedale, che vivono in simbiosi nel tranquillo sottotetto da cui si vedono le fronde degli alberi.
Un aneddoto ci racconta come Kant fosse, in tarda età, così abituale e preciso nella passeggiata mattutina da potersi basare sul suo passaggio per determinare l’ora esatta: i cittadini di Königsberg ed il filosofo potevano quindi reciprocamente confidare nel rispetto di un ordine che era tenuto in vita dalla reiterazione delle medesime azioni.
È questo il rapporto di fiducia che lega Lynn Carver al proprio lavoro. Svolgere le medesime azioni nel medesimo luogo e con un rituale definito ha sviluppato in lei la sicurezza di un ordine mentale, e di conseguenza anche universale, difficilmente scalfibile. Il suo lavoro, deliziosamente artigianale, mostra così da un lato l’infinita pazienza dell’artista e dall’altro la sua necessità di eseguire ogni azione in prima persona. Come goccia su goccia la pietra scava la roccia, con la medesima costanza le mani dell’artista cuciono –con ago e filo– mappe, pagine di giornali, ritratti di luoghi e di persone.
Alighiero Boetti, dopo che ne aveva curato il progetto, affidava la realizzazione delle proprie opere in paesi del Medio Oriente. Quasi nessuno dei suoi celeberrimi planisferi o innumerevoli aforismi è infatti stato ricamato da lui personalmente: in quel caso l’ideazione era l’aspetto preponderante. Al contrario per Lynn Carver è centrale confrontarsi direttamente con i tempi lunghi di una pratica che è, nella nostra tradizione, quasi esclusivamente femminile. Il suo è un processo di manipolazione di tessuti –seta, cotone, lino, taffetà– che nasce dal lavoro quotidiano per diventare progressivamente spirituale, in maniera non dissimile alla realizzazione delle icone sacre nella tradizione religiosa ortodossa.
In un incontro Lynn mi raccontò di come da piccola, nei momenti di pianto, la madre fosse solita prenderla in braccio e portarla a quietare alla finestra del soggiorno, in cui erano collocate delle tende rosa antico con dei grandi fiori. Puntualmente, alla vista delle tende, lei smetteva di piangere ed iniziava a giocare con le pieghe di tessuto. È il primo episodio di un amore che non tarderà a manifestarsi, portandola a praticare a lungo, negli Stati Uniti, la professione di textile designer. E che, in maniera ancor più singolare, la spingerà a collezionare tessuti e stoffe per tutta la sua vita.
La vista del suo studio è illuminante: ovunque vi sono pezzi si tessuti, ritagli di etichette, rocchetti di filo, disposti ordinatamente. La presenza di innumerevoli scampoli, raccolti in un arco di tempo che si snoda a partire dalla sua adolescenza, testimoniano infatti l’estrema razionalità dell’artista americana, che ha indefessamente catalogato (per colore, per tipo di fibra, ecc.) pezzi della sua vita, cui ricorre per costruire –evidentemente risemantizzandoli– le proprie opere. Vi è così un doppio cordone ombelicale che soggiace al suo lavoro: non solo quindi la corrispondenza tra soggetto rappresentato e opera, ma anche tra opera e pezzi di vita individuale già vissuta, sedimentata e tassonomicamente disposta. Ne consegue, così, che l’artista difficilmente cercherà del materiale al di fuori del proprio atelier, poiché tutto è già stato certosinamente metabolizzato e catalogato, ed è pronto ad accendere –all’occorrenza– i fili di una serie infinita di connessioni tra passato e presente.
Benché siano del tutto analoghe le procedure di lavoro, i filoni principali della sua ricerca si possono condensare nei ritratti, nelle mappe, e nelle opere in cui è predominante l’aspetto del lettering.
I ritratti nascono casualmente negli anni Settanta, quando sceglie di miniaturizzare le dimensioni di un copriletto e realizza, in scala, un letto con tanto di lenzuola e cuscini. Quel letto racconta così le difficoltà e la vita del committente –un amico– di cui diventa inevitabilmente punto di partenza per un’analisi psicanalitica: i ritratti nascono infatti dall’esigenza di descrivere i tratti psicologici o narrare gli eventi che hanno plasmato la soggettività di una persona. Successivamente prenderanno anche altre forme, ma continueranno ad essere fortemente legati alla dimensione dell’alcova, declinata ogni volta con la leggerezza o la complessità del caso.
Le mappe di città, invece, nascono dal desiderio di esplicitare le trame nascoste nell’intreccio di strade, di vie di fuga, di pieni e vuoti che costituiscono il labirinto di ogni luogo. Sono naturale situazione privilegiata di corrispondenze topografiche tra realtà lontane, in cui si addensano legami e simboli, di cui i tessuti sono incarnazione narrativa (negli effetti ogni ritaglio di stoffa è una piccola tessera di un enorme mosaico appartenuto all’artista). Sono punti di snodo tra mondi incompenetrabili, dei quali si avverte profondo il carico suggestivo.
La prima pagina di un giornale, un foglio strappato da un elenco telefonico o un banale annuncio pubblicitario, sono stati tra i soggetti preferiti di Lynn Carver per l’utilizzato della parola scritta in senso grafico. Il contrasto tra testo e sfondo è stato ricostruito con il ricamo, spesso riproducendo i chiaroscuri delle immagini, come avviene ad esempio nel caso di un vero e proprio album fotografico di famiglia: il gioco è quello di utilizzare una forma che sia percepita dall’osservatore a metà strada tra riproduzione fedele ed illusione. Ma –come è inutile aggiungere– in questa selva di rimandi sfuggevoli, non farebbe alcuna differenza.
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